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Era un po’ di tempo che non provavo una sorpresa come quella che mi ha colto quando le prime note di “La via della seta” sono esplose con violenza dai diffusori. Il volume del preamplificatore era regolato troppo in alto, così ho sussultato di spavento e sono scattato a ruotare la manopola argentea, azzerando la sua corsa quasi completamente. Ok, mi sono detto, ripartiamo da capo. E così, dopo aver settato il volume ad un livello più consono a quello di un tranquillo condominio, ho riassaporato la veloce sequenza delle note iniziali di “L’alba di Eurasia”, suonate all’unisono dagli strumenti. Immediatamente, con l’eliminazione del fattore sorpresa, mi sono reso conto che c’era un’altra sensazione che avevo percepito, rimasta soffocata dalla sorpresa al primo ascolto. Sto parlando di un brivido di esaltazione, di quella cosa che sembra farti balzare in avanti il cuore fuori dal petto quando la musica ti prende in momenti particolarmente ispirati. Ho sorriso, pensando a come fosse possibile che il nuovo disco delle Orme potesse provocarmi questo. Sono convinto che in tanti aspettavano “La via della seta” pensando ad un lavoro che sarebbe risultato scontato, pubblicato per dovere allo scopo di onorare con fresche composizioni il nuovo corso di una band ormai irriconoscibile rispetto a quella della formazione originale. Eppure, con l’album dal vivo pubblicato qualche mese fa, i più attenti avevano potuto constatare in anticipo che le premesse erano ben altre, grazie ad un suono frizzante e ricco accompagnato da una voce che non sembrava faticare troppo per inserirsi nei brani storici. Semplicemente, “La via della seta” è un bel disco. Si tratta di un concept basato sull’antica via di commercio tra oriente e occidente e su Marco Polo, denotando in questo un curioso parallelismo con l’album del ritorno di un’altra gloriosa band del progressive rock italiano, i Latte e Miele. La musica è un trionfo melodico, dal sapore a volte cinematografico, a volte documentaristico, ed evita di intestardirsi su temi orientaleggianti che chiunque si aspetterebbe data l’ambientazione del concept. La già citata “L’alba di Eurasia” trasmette subito l’emozione del viaggio verso paesi lontani, conducendoci dalla sfuriata iniziale ad un tema suonato dalla chitarra acustica e poi dall’elettrica, in due minuti introduttivi che preludono al rock epico di “Il romanzo di Alessandro” e, finalmente, al primo brano cantato, “Verso Sud”, dove la voce di Jimmy Spitaleri, espressiva come non mai in questa breve ballata, si appoggia sulle note di pianoforte e tastiere. Proseguendo nell’ascolto mi rendo conto di come la musica scorra liscia e senza intoppi, proprio come la seta, complice anche la durata breve (poco più di quaranta minuti totali) dell’intero album. Il tutto è un alternarsi di temi a volte intensi, spesso lenti e melodici, suonati ed arrangiati in maniera molto tradizionale, con pianoforte, hammond e chitarra elettrica a farla da padrone e la voce di Jimmy che spunta ogni tanto a regalarci vivide emozioni. I brani sono generalmente corti, giocati su temi e melodie fondamentalmente semplici, ma quando diventano più lunghi, andando in crescendo verso la fine dell’album, si sviluppano anche in qualità, diventando fantasiosi e vari, con passaggi strumentali ispirati e ricchi di melodie che cercano di evitare la facile presa. E così passiamo attraverso l’accurata scelta dei suoni di “Serinde”, gli arpeggi e gli accordi di “Incontro dei popoli”, brano che più ricorda le Orme storiche, le belle frasi di chitarra elettrica di “La prima melodia” e il trascinante finale di “Xian-Venezia-Roma” e “La via della seta”. Personalmente non riesco a trovare grossi difetti nel disco, se si esclude quello, opinabile, del minutaggio risicato, così come personalmente non mi interessa stabilire se queste siano le “vere Orme”. “La via della seta”, ad un’analisi finale, è un album che cerca di mediare tra la ricerca di novità ed il riferimento al passato, riuscendo sorprendentemente a far prevalere la prima caratteristica e consentendo alle Orme di lasciare ancora una volta la propria impronta ben impressa nel terreno fertile del rock italiano.
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