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Dopo la separazione, c’era sicuramente molta curiosità nel vedere come le carriere delle Orme e di Aldo Tagliapietra sarebbero proseguite. Inevitabile far scattare paragoni, dopo tantissimi anni in cui questi due nomi sono stati indissolubilmente legati. Se le Orme hanno preferito proseguire con una proposta che ha continuato sulla falsariga della trilogia “Il fiume” – “Elementi” – “L’infinito”, mantenendo quasi completamente inalterato il rock sinfonico tastieristico che li aveva riportati in auge, il bassista-cantante pubblica un lavoro solista in cui segue una strada leggermente differente. Innanzitutto citiamo i collaboratori a cui Tagliapietra si è affidato. Il nome “pesante” è quello di Paul Whitehead che ha disegnato la copertina, mentre i quattro musicisti che lo affiancano in questo cd sono giovani che si mostrano validissimi: Aligi Pasqualetto (piano, minimoog, tastiere), Andrea De Nardi (chitarra elettrica, chitarre acustiche), Matteo Ballarin (organo Hammond, tastiere), Manuel Smaniotto (batteria, percussioni). Per il resto, la voce inconfondibile di Aldo scalderà immediatamente gli animi di chi lo ha seguito durante la sua carriera, mentre la struttura musicale, pur presentando qua e là analogie con il gruppo che lo ha reso famoso, si mostra più semplificata ma comunque molto intrigante. Segnaliamo inoltre che, sorprendentemente, dopo tanti anni, non c’è spazio per il sitar e l’Oriente. E’ la title-track ad aprire le danze e ad imporsi come uno dei brani cardine del disco, con quelle melodie dirette e i sapori elettroacustici, con organo Hammond e piano a creare trame molto raffinate e a ritagliarsi spazi solistici gradevolissimi. Per quanto riguarda l’aspetto strumentale, infatti, sono proprio i giochi a due di Pasqualetto e Ballarin a finire spesso in primo piano, con un eleganza davvero ammirabile, come evidenzia anche il finale del secondo brano “Silenzi”. In altre occasioni è inevitabile notare delle somiglianze con le Orme degli anni ’70 più dirette (quelle di “Gioco di bimba” o “Amico di ieri”, per intenderci): è il caso de “Il santo”, “La cosa più bella”, “Un grande giardino”. Spazio anche per riusciti momenti semiacustici con la ballad “Sette passi” e la conclusiva “Il sutra nel cuore”, gioiellino che viaggia tra melodia mediterranea e i Genesis più bucolici. Pochi i momenti più grintosi e che possono ricordare il rock metropolitano dei primi lavori solisti dell’artista (“C’è una vita” e la travolgente “Dio lo sa”, che “odora” di PFM). Forse un po’ troppo mielosa, invece, “Tra il bene e il male”. In effetti, colpisce molto la ricerca di linee melodiche molto dirette da parte di Tagliapietra, che sprigiona gran feeling col suo canto e che punta anche su refrain ripetuti ed orecchiabili. Eppure la costruzione delle varie composizioni, ad un ascolto attento, non è poi così banale e i molteplici spunti strumentali, oltre ad essere molto piacevoli, denotano una classe notevole, arrangiamenti squisiti e ben studiati ed una preparazione minuziosa di fondo. Gli oltranzisti che vogliono sempre un prog sinfonico altisonante, pieno di cambi di tempo, di brani lunghi e di una certa complessità criticheranno con facilità questo lavoro. Eppure io vi dico che Tagliapietra ha confezionato un album di belle canzoni (in alcuni casi bellissime), senza pretese, senza clamori e puntando su un pop-prog onesto, sincero, maturo, sereno. Una musica diretta, senza alcuna presunzione in essa, che ha il solo intento di arrivare al cuore dell’ascoltatore. E ci riesce. Due le parole che la descrivono meglio: semplicità e classe.
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