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Costretto per una grave malattia ad annullare il tour con i Camel, Guy LeBlanc, nonostante tutto c’è e trova la forza per rimettersi in gioco con un nuovo album dei Nathan Mahl, frutto di ben cinque anni di lavoro, dopo il mezzo passo falso compiuto nel 2008 col non brillantissimo “Exodus”. Il poliedrico tastierista sembra aver davvero corretto il tiro e se il precedente lavoro era fiacco e fin troppo verboso questo “Justify” torna ad essere un album prevalentemente strumentale, come nella migliore tradizione del gruppo, e prevalentemente improntato a quello stile prog-fusion che ben conoscevamo. Per dare vita alle sue ultime creazioni LeBlanc ha parzialmente rinnovato la sua line-up, confermando la coppia di axemen costituita da Tristan Vaillancourt e David Campbell, entrambi recenti acquisti nella storia del gruppo, risalenti proprio ai tempi di “Exodus”, e richiamando a sé il bassista Don Prince che ricordiamo invece fra i protagonisti dell’esordio “Parallel Eccentricities” del 1983. E’ doveroso poi menzionare il contributo, ma solo nell’ultima traccia, di un ospite molto speciale e cioè dell’amico Andy Latimer. Fra i tanti aggiustamenti messi a punto dal leader, che torna anche al microfono come voce solista e dietro le pelli come batterista, vi è quello di lasciare maggior campo di azione ai suoi compagni e in particolar modo alla coppia di chitarristi. Ricordiamo come gli album dei Nathan Mahl fossero tutti più o meno dominati da vigorosi tastierismi che finivano spesso per monopolizzare la scena, mentre ora troviamo un ricco alternarsi di assoli di chitarra oltre che di synth e, anzi, un brano come l’opener “Tantrik Kobbler” sembra addirittura costruito appositamente per glorificare in tutto e per tutto la sei corde. Si tratta di una partenza energica e d’assalto, dalle sonorità taglienti, guidata dalla chitarra che viene suonata con piglio virtuosistico e gestisce ogni disegno melodico. La musica non fa che scivolarle dietro seguendo la scia dei due chitarristi che si dividono in modo atletico assoli e parti ritmiche, intersecandosi e rincorrendosi. Sempre alla chitarra è affidata l’apertura del successivo “Deception”, un altro strumentale, che si rivela però molto più vario con le sue arie prog fusion più leggere in cui rilucono vaghi scorci Cameliani. Ora le tastiere prendono forza e dividono, come anticipato, il loro ruolo da soliste con le chitarre, rubandosi continuamente la scena in chiaroscuri dinamici e in un continuo susseguirsi di assoli virtuosi. Non mancano piccole esplosioni sinfoniche e momenti in cui gli intrecci musicali si complicano piacevolmente. In realtà l’album intero è molto vario e vi sono anche momenti più deboli che sono secondo me proprio quelli cantati. Per quanto sia formidabile come tastierista, Guy LeBlanc non possiede però un’ugola dotata e carismatica. Per fortuna però in questo album non si esagera con le parti cantate e possiamo anche chiudere un occhio se “It Tolls for Thee”, una ballad dai ritmi lenti e regolari, non lascia il segno. Allo stesso modo è la voce solista a fiaccare “Justify”, nonostante le liriche molto belle, anche se i momenti strumentali sono suonati con classe e maestria. Se anche il cantato in “Ballad for an Angry Man” è un po’ sgraziato, le sorti del brano vengono risollevate da arrangiamenti complessi, che ricordano a tratti i Gentle Giant, in cui tutti gli strumenti interagiscono al meglio e cercano costantemente di emergere con assoli spigliati e grandi dimostrazioni di carattere. Il brano non è comunque tutto muscoli e viene ingentilito da interessanti elementi melodici ed aperture lente e a tratti Genesisiane. L’apice dell’opera è tuttavia rappresentato, secondo me, dallo strumentale “Spirit”, brano movimentato e variegato con elementi fusion ed inserti più morbidi e sinfonici brillantemente miscelati nel contesto. Infine “Infinite Light”, la traccia di chiusura, brilla per la sua sinfonicità ariosa e sgargiante, con un Moog fra Yes e Genesis ed il limpido assolo chitarristico di Latimer a fare da fiore all’occhiello. Anche qui le liriche sono molto sentite e belle nel descrivere la musica come grande ragione di vita. Peccato anche qui per il cantato, non invadente e dilazionato nel corso della traccia, è vero, ma spento e quasi svogliato. Vi sarete resi conto che l’album è in sostanza variegato ma anche un po’ altalenante. C’è comunque da dire che è suonato alla grande, con maestria e buon gusto, nonostante qualche pecca, qualche calo di ispirazione e il grosso punto debole rappresentato dal cantato solista. Non si può forse parlare di ritorno in pompa magna ma la fisionomia del gruppo è riconoscibile e si può dire a ragione che “Justify” è un disco gradevole e sincero. Il mio augurio è quello di sentir parlare ancora e a lungo del grande Guy LeBlanc. Alla prossima allora!
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