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Come sappiamo, I Grand Tour rappresentano l’unione delle forze tra Hew Montgomery, fondatore degli Abel Ganz e da questi fuoriuscito nel 2005, con musicisti membri dell’altra band scozzese dei Comedy Of Errors che, al momento della formazione di questo progetto, era ancora nel suo lungo periodo di pausa. L’esordio discografico dei Grand Tour è avvenuto nel 2015 con “Heavy on the Beach”, buon album che riusciva a rivitalizzare un po’ le stanche sorti del new Prog britannico. Ed in effetti di questo si parla: il classico new Prog d’inizio anni ’80, quello di Marillion, Pendragon e, appunto, Abel Ganz, solo un po’ attualizzato in quanto a idee musicali e, soprattutto, sonorità ma con ancora presenti i migliori elementi che possono aver attratto gli ascoltatori: Prog sinfonico molto melodico, ritmiche ed atmosfere complesse ma non troppo e momenti di pathos che a momenti si affacciano nel corso di tracce dalla durata abbastanza estesa. In quanto a durate, le 7 tracce di quest’album dicono la loro, non scendendo mai al di sotto dei 7 minuti, prendendosi quindi i loro tempi per svilupparsi, completare le proprie linee melodiche, raccontare le proprie storie; questo è quanto richiede uno dei dettami della musica Prog, no? Le aspettative possono tuttavia risultare un po’ disattese, se quanto si cerca è diverso da quanto andiamo a trovare in quest’album. Le canzoni si sviluppano in ampiezza, come si diceva, ma senza grandi variazioni o sbalzi di umore, limitandosi spesso ad incedere senza sbalzi né tentativi di equilibrismi particolari. Il risultato non è comunque così negativo come si potrebbe immaginare da queste mie parole: abbiamo delle discrete canzoni con belle atmosfere che, è vero, non offrono particolari spunti d’interesse da poter singolarmente rimarcare, ma che globalmente riescono ad intrattenere l’ascoltatore abbastanza piacevolmente. Se prendiamo ad esempio quella sorta di omaggio agli Abel Ganz che è “Back in the Zone” (che riprende le tematiche di “The Dead Zone”, presente nell’ormai lontano primo album), possiamo dire che questa traccia contiene momenti musicali accattivanti e carichi di drammaticità, con qualche bell’assolo di chitarra ed armonie abbastanza seducenti; tuttavia essa per buona parte della sua durata si trascina su un ritornello cantato ripetutamente sulla costante e ripetitiva melodia, dando l’impressione di essere stata stiracchiata eccessivamente nella sua durata (che sfiora i 12 minuti). Certo… sempre meglio comunque della successiva strumentale “The Panic”, che presenta ritmiche elettroniche strane, con un tunz… tunz… ben poco attraente. Beh… insomma… l’album si trascina così, senza infamia e senza lode, e tutto sommato non risultando comunque particolarmente fiacco ancorché mantenga quasi costantemente un profilo basso, con pochissime e limitate impennate che solo saltuariamente vanno ad increspare un incedere lineare e spesso eccessivamente dilatato. Si tratta di un album discreto e moderatamente piacevole, ad ogni modo.
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