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NANAUE |
28IF |
Rattsburg Records |
2021 |
ITA |
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Secondo album per il duo genovese formato da Matteo Nahum (chitarra, tastiere) ed Emiliano Deferrari (voce, chitarra acustica), che prende il nome dal re squalo dell’universo immaginario della DC Comics. Musicisti entrambi eclettici e viaggiatori, a dire il vero: il primo vive infatti a Valencia, il secondo a Bruxelles. Nahum, inoltre, lo si ricorda nel mondo prog con Luca Scherani, La Maschera di Cera, gli Hostsonaten e nella band solista dello stesso Fabio Zuffanti (fondatore delle due compagini poco prima citate), oltre a collaborazioni in ambito jazz e di musica leggera italiana (con cui i relativi autori, Max Manfredi e Cristiano Angelini, hanno vinto a loro volta la Targa Tenco nelle varie sezioni). Il musicista si è anche affermato nell’ambito cinematografico; occorre quindi per lo meno citare la colonna sonora di “Hanging in there” del 2017. Anche Deferrari – peraltro titolare della Rattsburg Records – vanta numerose collaborazioni, tra cui quella (musicalmente ostica) con Marco Machera, oltre al progetto The Loop Duo con Adriano Arena e ad alcuni lavori solisti. Come si può quindi ben capire, questa nuova fatica è stata scritta, arrangiata, suonata e prodotta spostandosi tra Spagna, Italia e Belgio, puntualizzando che alcuni frangenti dell’album sono stati realizzati nell’arco di quasi undici anni. Si potrebbe parlare di un pop-rock dagli spunti progressivi, realizzato grazie alla presenza di alcuni ospiti che hanno contribuito in maniera sostanziale col loro apporto alla strutturazione dei brani. Ne è un esempio calzante l’iniziale “Summwhere”, che in principio potrebbe sembrare una versione melodica e solare dei Goad. Subito dopo si va però articolando in quella chiave pop di cui si parlava prima, simile alle canzoni più spensierate della seconda parte degli anni ’80, tipo alcune cose dei Tears for Fears, anche se il sound è oggettivamente attualizzato e si contamina positivamente con andamenti jazzati, arricchendosi soprattutto nel finale di una densità sinfonica dettata da violino e violoncello. C’è qualcosa dei Genesis più bucolici in “Sumac Said”, corredata da effetti percussivi che “scorrono” costanti, come delle sottolineature, intrecciati alla chitarra acustica di Nahum. Belle le note acute cantate in maniera misurata da Deferrari. “Down the Rabbit Hole” è aperta dal suono mischiato al fruscio di un vecchio vinile, rivelandosi una piacevole sorpresa nello stile del vecchio Elton John più sobrio e allo stesso tempo scherzoso, come se stesse cantando in una favola. La parte strumentale di “Che Boludo” è a tratti interessante, specialmente quando si lascia spazio alla chitarra elettrica, un po’ meno la parte cantata in spagnolo, una specie di versione iberica del succitato Elton John in versione rock’n’roll, segnalando in questo contesto la presenza di Elisa Montaldo al pianoforte. Dopo la malinconica e brumosa “The Shortest Story”, l’ipotetica prima parte dell’album si chiude con “Lancashire”; lo stile è quello di una canzone d’autore che mischia il pop con una buona dose di folk-rock, rivelandosi nel suo andamento molto più varia di altre tracce qui presenti, grazie anche a delle svisate sulla chitarra slide che donano colore in stile blues rurale, prima dell’inaspettata esplosione finale con tanto di fiati in evidenza. La parte 2 si apre così con la solare “Daybeak”, scandita dalla chitarra acustica e sottolineata dal violoncello, seguita da “Devil’s Lighter”, che sembrerebbe nettamente più ombrosa. L’atmosfera è in realtà altalenante, cullata su un arrangiamento a tratti da camera, sfruttando con fare discreto oboe, clarinetto e fagotto. La strada verso il pop-folk britannico, melodico e rassicurante, è totalmente spianata tramite “What Is Left”, bucolica ed orecchiabile, intrecciando le note acustiche con quelle del basso fretless e soprattutto quelle toccate delicatamente dalla voce, immettendosi spontaneamente nella breve “Instumental” – strumentale, come da titolo – che invece presenta una partitura solenne ed elettrica, tendente anche alla psichedelia. Questa, a sua volta, si evolve naturalmente nei ritmi funky di “Confident Boy”, la quale continua a mantenere una sua pacatezza nonostante la maggiore vivacità. Da segnalare, oltre ai sintetizzatori di Nahum, il bell’assolo di chitarra distorto ed ispirato, stavolta ad opera di Deferrari, continuando a proseguire sempre più veloce anche durante il successivo cantato ed alla coda finale, che diventa ritmicamente man mano più complessa. Si riprende l’attitudine da incanto british tramite “The Blind, The Deaf” – tocca ora a Matteo Nahum distinguersi con le sei corde elettriche in fase solista –, terminando con la breve title-track, che vede coinvolto solo il duo titolare senza altri compagni di viaggio. Tra questi, occorre comunque ricordare i bassisti Marco Machera e Daniele Piceti, oltre al batterista Alessandro Inolti. Il duo ritorna con una musica suonata e prodotta in maniera che potrebbe essere definita “signorile” ed elegante, ponendo in evidenza tutti i pro e magari anche qualche contro di questa scelta. Non si parla esattamente di prog, ma di qualcosa che musicalmente viene espanso proprio grazie ad un’attitudine progressiva, riuscendo quindi ad ampliare determinati margini. Dopo l’inizio, i riferimenti vanno individuati nel più volte nominato Elton, soprattutto per le scelte vocali. Ma si potrebbe pensare anche alle vecchie melodie di Jackson Browne, Alan Hull o ad alcune scelte degli scozzesi Andwella. Certo, un po’ di nerbo in più non sarebbe guastato. Pro e contro di un’impostazione molto signorile, come si diceva prima.
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Michele Merenda
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EMILIANO DEFERRARI |
Monty |
2018 |
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