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Tra i protagonisti recenti di quella branca del progressive più vicina alla musica d’avanguardia e discendente in pratica dal R.I.O. più classico, spiccano sicuramente gli statunitensi Thinking Plague, che con il loro “In extremis” avevano incantato nel 1998. L’opera di ricerca di quest’ottima band prosegue al meglio con il nuovo “A history of madness”, un album dalle mille sfaccettature che mostra un eclettismo sonoro sorprendente, in cui il rock sperimentale che sta alla base si sposa felicemente con la musica classica contemporanea, con il jazz, con soluzioni care ai King Crimson di “Red”, in delle unioni che mostrano come il progressive oggigiorno abbia ancora ottime cose da dire. Il cantato lunatico di Deborah Perry è un importante segno distintivo di un gruppo che vede spesso protagoniste le chitarre di Mike Johnson, che a volte ricamano elegantemente, altre volte mostrano una vena maggiormente schizoide. L’intervento dei fiati e di vari strumenti classici favorisce invece i legami con il jazz e con la musica da camera e permette alla band di essere annoverata in quella cerchia di gruppi che riescono a far convivere al meglio tradizione ed avanguardia. Avrete già capito, insomma, che se non siete a digiuno del progressive meno convenzionale e se, anzi, siete cresciuti con Henry Cow, Slapp Happy, Samla Mammas Manna et similia, questo disco fa sicuramente al caso vostro e non c’è pericolo che vi deluda. Forse non siamo vicini al capolavoro cui possono far pensare i primi, facili, entusiasmi iniziali, ma si tratta senza dubbio di un ottimo album, che può, tra l’altro, rappresentare l’ideale punto di partenza per chi intende muovere i primi passi verso questo tipo di musica.
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