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Nati a metà degli anni ’80 dalle fervide menti avanguardistiche dei due polistrumentisti Bob Drake e Mike Johnson, i Thinking Plague sono arrivati ai giorni nostri con le “solite” rivoluzioni interne, cambi di line-up, collaborazioni più o meno illustri ed eventi di varia natura. Per questa nuova uscita, dopo ben 9 anni dalla precedente, la rivoluzione pare compiuta e, quando ormai della formazione originale rimane solo Mike Johnson, ecco apparire un nuovo combo, che solo parzialmente è riferibile alle ultime uscite in studio. Ritroviamo quindi i più recenti acquisti Mike Harris al sax e clarinetto e Dave Willey al basso, entrambi assorbiti dai cugini Hamster Theatre. Poi il nuovo batterista e tastierista Kimara Sajn e, vero gioiello, Elaine Di Falco, voce assolutamente straordinaria, che già ci impressionò non poco con gli Hughscore di Hugh Hopper e il cui lavoro, qui, è complesso quanto mirabile. È da notare, poi, a ribadire la forte “instabilità” della formazione, che già nel tour appena partito Kimara Sajn è passato alle sole tastiere e la batteria è stata affidata Robin Chestnut. Questa nuova uscita, sesta in carriera per i Thinking Plague, presenta molti agganci con la tipologia sonora a cui ci hanno abituati: avant prog senza nessuna concessione, elaborato, complesso, costruito su telai anomali e le cui corde sembrano non voler correre parallele, ma convergere verso un concetto di ricerca sonora che, per scelta, vuole essere poco accessibile. Nonostante questo e con riferimento all’intera carriera e ai precedenti lavori, viene fuori abbastanza chiaramente un andazzo meno sperimentale e molte tendenze “rock”, attenzione che il virgolettato è d’obbligo. Nell’analisi tecnica del disco, il primo distinguo è relativo al lavoro della Di Falco. Questo perché ho trovato, ma solo inizialmente, notevole differenza di approccio (ascolto) tra le parti solo strumentali e le parti anche cantate. Invece tra di esse non c’è grande differenza e spesso, quando la voce manca, è prevalentemente il clarinetto a sostituirla. Il lavoro di entrambi è quello di creare una linea melodica che si distacca parzialmente dai particolari accordi di Mike Johnson, ma che al contempo li abbraccia in maniera elicoidale, avviluppandosi ad essi in una spirale a doppio filamento. La corsa di questo doppio filamento è quella di un poliformico DNA musicale, ora intrecciato, ora parallelo, a tratti più vicino, a tratti più distante e ogni punto di contatto tra i due percorsi è automaticamente compensato da successivi punti di lontananza. Tutto ciò parrebbe ottenuto grazie a movimenti cromatici molto saltellanti che arrivano, in certi punti, a funzioni politonali o, quantomeno, bitonali, momenti non necessariamente troppo studiati e più facilmente ricollegabili all’uso massiccio di accordi aperti, sui quali varie tonalità possono essere inserite senza problemi di marcata dissonanza, ma che creano quell’effetto un po’ distonico generale, tipico dell’influsso politonale. Il tutto è unito ad una forma poliritmica molto accesa, spesso basata sulla semicroma. Lo stesso Mike Johnson, nel descrivere i brani dell’album, dà indicazione dei tempi più frequentemente usati e, assicuro, c’è da rovinarsi la mente nel provare a contarli tra i 19/16, 17/16 e 9/16 vari. Fin dall’avvio, “Decline and fall” parte deciso secondo i dettami spiegati e “Malthusian dances”, nel quale le danze sono – ovviamente – solo reperibili nel titolo, si presenta scomposta con sprazzi jazz rock, atmosfere RIO, pieni e vuoti in rapida successione. È un brano nervoso a tratti nevrotico che non consente all’attenzione di lasciarsi andare, tante sono le situazioni che narra. Più pacata e riflessiva è “I cannot fly”, pur mantenendo intatto l’aspetto multiforme e gli schemi ritmici classici. “A Virtuous man” con i suoi 12 minuti è la traccia più lunga e i temi che affronta sono quindi ancora più ampi toccando i lidi del Canterbury Sound più vicini ad Henry Cow e National Health. Momenti che si ripetono anche in altri brani nei quali le voci della Di Falco, opportunamente sovraincise a mo’ di coro, portano a ricordare, oltre alle Northettes, anche i Gentle Giant, come in “Sleeper Cell Anthem”. Su tutto un lavoro ritmico dalla precisione e dalla complessità impressionante, che mette bene in evidenza le capacità tecniche della sezione ritmica. Ancora diversa è la struttura di “The Gyre”, nella quale il pianoforte, molto presente, crea un’atmosfera molto classico-sinfonica in una sorta di Gershwin+Henry Cow+Respighi. Ma è effettivamente facile incensare strumentisti di questa levatura e, forse anche inutile, più utile è invece dire che, a differenza di quanto un ascoltatore superficiale possa immaginare, ogni brandello musicale sa di puntualmente idealizzato e che l’improvvisazione sia un’arma che questa band sembra non voler utilizzare. Gli spartiti precisissimi e la ripetibilità dei brani sono elementi indispensabili per creare le atmosfere a cui i Thinking Plague ci hanno abituati e che speriamo di poter assaporare ancora.
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