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THINKING PLAGUE Hoping against hope Cuneiform Records 2017 USA

Poche band hanno lasciato il segno, in quella piccola nicchia che è ed è stato il mondo del progressive rock degli ultimi 30 anni, come gli statunitensi Thinking Plague. Attivi sin dal 1982, hanno saputo reinterpretare e dare nuova linfa al RIO, attualizzando la proposta degli Henry Cow e diventando un vero e proprio punto di riferimento per tutti i gruppi di avant prog. È comprensibile quindi la trepidazione con la quale si si attende ogni loro nuova uscita. Trepidazione dovuta anche al fatto che il gruppo guidato da Mike Johnson non abbia mai viziato i suoi fans, ma sia stato sempre parco con le sue uscite e in ben 35 anni di attività abbiano rilasciato solamente 7 album.
“Hoping Against Hope” è appunto il settimo lavoro in studio dell’ensemble statunitense e per certi versi giunge inaspettato dopo “soli” 4 anni e mezzo dal precedente “Decline and Fall”, album che parzialmente aveva deluso le mie aspettative. Avevo avuto la sensazione di trovare una band che aveva iniziato a specchiarsi e un disco, seppur non brutto, un po’ troppo criptico e asettico: un esercizio di stile ben riuscito, ma poco coinvolgente. Avevo quindi iniziato a pensare che questa gloriosa band potesse avere intrapreso un decorosa parabola discendente. Fortunatamente per me (e spero anche per voi) quest’ultimo album mi ha fatto ricredere, proponendo un gruppo in grande spolvero.
Rispetto al precedente, la line-up è pressoché immutata con Mike Johnson (chitarra) e unico superstite della formazione originaria, Elaine Di Falco (voce, piano), Mark Harris (fiati, clarinetto), Dave Willey (basso, batteria), Robin Chestnut (batteria, percussioni) e, unica new entry, il secondo chitarrista Bill Pohl, ingresso che si rivelerà vincente. Infatti, a differenza del predecessore, anche grazie alla presenza di una seconda chitarra che rafforza il sound della band, quest’ultimo album ha un sound più organico e d’impatto, in poche parole è un disco più rock. Ovviamente stiamo parlando dei Thinking Plague e i termini vanno contestualizzati e soppesati all’interno della loro proposta musicale sempre estremamente complessa e avventurosa. La struttura dei brani è sempre molto più vicina a quella della musica cameristica piuttosto che a quella del rock o del jazz. I vari strumenti (tra cui la splendida voce della Di Falco), sembrano muoversi al tempo stesso, indipendentemente ed in perfetta armonia, alle volte sfiorandosi lievemente, alle volte battagliando selvaggiamente. Colpisce in particolare il lavoro fatto dalla Di Falco, la cui voce si fonde e si amalgama con naturalezza all’interno delle complicate strutture musicali della band: alle volte sembra quasi decomporsi per poi rigenerarsi all’interno di linee melodiche di altri strumenti.
Nelle intenzioni iniziali di Mike Johnson, leader indiscusso della band, il disco sarebbe dovuto essere meno cupo e oppressivo dei precedenti e veicolare un messaggio di speranza. Tuttavia gli infausti eventi del 2016 (vedi l’elezione di Trump) hanno tarpato le ali a questa speranza e anche questo album, seppur in minor misura del predecessore, risulta claustrofobico e cupo. Non a caso l’album inizia con il brano “Echoes of Their Cries”, scritto dalla Di Falco, che parla di come dietro una maschera di allegria si nasconda la disperazione (alla faccia dell’ottimismo e la speranza). Lo stesso discorso dicasi per gli altri testi che trattano tematiche come l’utilizzo della tecnologia per fini nefasti. Ovviamente la musica asseconda lo stesso mood, diventando spesso opprimente e straniante.
Tra tutti i brani spiccano i 14 minuti conclusivi di “A Dirge for the Unwitting”, una piccola suite che condensa un’infinità di spunti musicali apparentemente slegati fra loro che si vanno a ricomporre in un mosaico finale che dà un senso logico a tutta la composizione.
“Hoping Against Hope”, non raggiungere i vertici di “In This Life” o di “In Extremis” ma si ritaglia certamente una posto rilevante tra gli album più importanti del gruppo, regalandoci una band tutt’altro che sul viale del tramonto ma piuttosto in piena coscienza dei propri mezzi e desiderosa come non mai di proporre la propria musica. Una musica ovviamente non per tutti, una musica sfidante e avventurosa, da ascoltare e riascoltare per scoprire sempre nuovi passaggi e nuove sfumature, una musica ad ogni nuovo ascolto mai simile a se stessa. Non rimane quindi che consumare quest’album ed aspettare con intatta trepidazione le prossime uscite di Mike Johnson e compagni.



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Francesco Inglima

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