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JON ANDERSON In elven lands: the fellowship Voiceprint/United States Of Distribution 2006 UK

Che “Il Signore Degli Anelli” abbia ispirato decine di lavori musicali, specie nel prog, è dato ampiamente conosciuto. In quest’ennesima opera ci troviamo catapultati in un mondo medievale, fatto di brani dalla lunga e sofferta gestazione. Nel 1999 Jon Anderson, il piccolo grande uomo degli Yes, si unì ad un “manipolo” di personaggi che stava lavorando ad una ricerca sonora di timbriche e strumenti del medioevo brittanico e mitteleuropeo. Partì una collaborazione che ha dato alla luce solo ora questo lavoro, dove oltre ai suoni, le ballate e gli strumenti tipici dell’epoca, ritroviamo anche liriche in Elvish (la lingua creata da Tolkien per dare voce agli Elfi della Terra di Mezzo) e in vecchio idioma anglo-sassone.
Il padrone di casa Carvin Knowles, oltre a scrivere 10 brani su 16, suona una ventina di strumenti, accompagnato da altri polistrumentisti e un discreto numero di voci femminili e maschili. Così tra corni, filicorni, liuti, arpe, campane, ghironde, oud, rebec e darbouka, passano questi 62 minuti in maniera soffusa e fin troppo noiosa.
L’ascolto necessità – presumo – di una notevole predisposizione e preparazione all’argomento trattato e, nonostante l’interesse che desta il sapere dell’opera ispiratrice, è fuori di dubbio che la pesantezza all’ascolto filato, arrivi sempre prima, ascolto dopo ascolto.
Jon Anderson è poco più che ospite, scrive sì due canzoni, che poi canta, sorretto da voci corali da chiesa anglicana, ma tutto si limita a questo e a qualche altra piccola intrusione corale e vocale qui e là, come nella ballad “Verses to Elbereth Gilthoniel”.
L’ascolto evidenzia non tanto brani in toto, ma piccoli movimenti piacevoli, come l’apertura di flauto e ghironda di “The sacred stones” scritta proprio del nostro Anderson, il commovente coro di apertura del CD con “Tîr Im”, il particolare arrangiamento della “Battle of Evermore” di Page/Plant, sradicata dal suo contesto hard-blues e piroettata in un medioevo tolkeniano con cori alla “Northettes” e il finale in crescendo di “The Blood of Kings”.
Non saprei a chi poter consigliare questo particolarissimo lavoro. I progster dubito possano trovare carne da azzannare. Forse ai più abituati a certi suoni di folk celtico, tradizionale, o a certa new age soffusa e scarna.

 

Roberto Vanali

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