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Dall’incontro tra Wojtek Szadkowski, leader e batterista dei Satellite (e a suo tempo dei Collage) e la vocalist Marta Kniewska, in arte Robin, nasce il progetto Strawberry Fields, che a dispetto del nome ben poco a che spartire con eventuali influenze Beatlesiane. Pubblicizzati come band sulle orme di entità contemporanee dalla forte componente elettronica, come Goldfrapp, Portishead, Massive Attack ma anche sulla scia più marcatamente gotica dei The Gathering, il progetto fonde in realtà queste tendenze con strutture più vicine al rock alternativo (Cranberries in primis), con occasionali puntate certamente più verso il new-prog melodico che verso il trip-hop. A completare i ranghi, i soliti sospetti della scena polacca: Sarhan Kubeisi e Jarek Michalski, rispettivamente chitarra e basso dei Satellite, con un “guest spot” per il tastierista degli stessi - Krzys Palczewski - a coadiuvare Wojtek, a sua volta alle prese anche con synth e loops.
L’album si apre con “Your story”, che aggiunge alle influenze citate anche le suggestioni “chill-out” che Madonna (sì, proprio lei!) sperimentò con il produttore William Orbit all’epoca di “Frozen”: un potente refrain, una chitarra graffiante a metà tra i Radiohead dello scorso decennio e i Porcupine Tree, contrapposta a strofe soft sottolineate dai loop percussivi; l’idea è interessante ma a lungo andare ripetitiva. La successiva “Close” potrebbe essere un brano dei Paatos, la voce di Robin non è esente da paralleli con Petronella Nettermalm; ecco che qualche rimando ai Satellite/Collage inizia ad emergere, malgrado le ritmiche piuttosto lineari che accomunano non poco questo brano al precedente. Con “River’s gone dry” la proposta di allontana un po’ dal rock, il brano si adagia su una base tastieristica su cui viene ripetuto il titolo come un mantra. Il potenziale commerciale del quartetto viene espresso a chiare lettere con un brano come “Fool”, impreziosito da una chitarra elettrica stavolta più lirica e meno spigolosa. Anche in “Beautiful” il rock alternativo pare essere il terreno di partenza su cui inserire qualche elemento distintivo, in questo caso il pop, con l’ennesimo refrain accattivante che - per quanto distante dalla cerebralità di certo prog - costituisce una sorta di “guilty pleasure” che ci tiene con l’orecchio piacevolmente attento alla musica. La chiusura è affidata al brano più lungo del lotto, quella “Flow” con cui forse si è voluto mirare a qualcosa di meno accessibile e più ricercato, con l’ottimo lavoro di Sarhan ed il respiro più ampio sottolineato da archi e cori.
E’ su album come questo che i pareri rischiano di dividersi in modo netto: per essere obiettivi occorre anteporre questa premessa: il progetto è un pieno successo in termini di uniformità di stile, raffinatezza e professionalità, con un plauso particolare alla vocalist Marta, qui al suo debutto assoluto su disco. Il dibattito è piuttosto sul valore artistico di un album simile e sulla sua collocazione sul “mercato”: qui entrano in gioco le preferenze personali e non credo sia corretto far prevalere le mie solo perché mi trovo a scrivere questa recensione; mi limiterò a dire che pur rientrando in un genere musicale che normalmente tendo ad ignorare o a sfiorare in modo appena tangenziale, l’album – pur con i suoi momenti di stanca - mi ha sorpreso in modo piacevole, anche se entrarci in sintonia ha richiesto più tempo di quanto si possa aspettare da un’opera fondamentalmente pop.
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