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DAAL Dances of the drastic navels Agla Rcords 2014 ITA

Non era semplice divincolarsi dalle maglie del dodecaedro: col loro terzo lavoro in studio (escludendo dal conteggio l’EP “Echoes of falling stars”, venduto nello stesso box set di “Destruktive Actions Affect Livings”), DAvide Guidoni (batteria, percussioni e samplers) ed ALfio Costa (tastiere e samplers), i DAAL in una sola parola, si erano spinti davvero in alto. Con nostra grande sorpresa la exit strategy da questa posizione scomoda è stata quella di fare una sfacciata svolta ad U, scappando indietro, verso i territori musicali degli esordi. Ricordate in “Disorganicorigami” (2007) una traccia intitolata appunto “The Dance of the Drastic Navels Part 1”? E ricordate che il successivo, e già citato, “Destruktive Actions Affect Livings” (2011) conteneva la seconda parte di questa specie di suite a puntate? Bene, ci siamo, il seguito di questa vicenda musicale è un intero CD, quello che spero avrete l’occasione di ascoltare e di cui mi appresto a parlarvi, ed eccovi servito il colpo di scena!
Potrà sembrarvi una soluzione banale ma voltarsi indietro non è affatto semplice, perché spostare lo sguardo in quella direzione significa anche andare a riscoprire un linguaggio sonoro assolutamente più impervio, criptico e sperimentale rispetto al seducente mix di sinfonicità, elettronica e melodicità noir che caratterizzava l’oscuro “Dodecahedron”. Non ce ne rendiamo conto subito perché quella scossa elettrica che pervade la robusta traccia di apertura, “Malleus Maleficarum”, potrebbe farci pensare ad un’opera molto più diretta. Non è così, anche se il nostro intraprendente duo, è vero, ha preferito sonorità nel complesso più energiche. Per la precisione l’idea di questa radicale virata è di Alfio Costa, autore esclusivo della totalità della musica. Quindi sappiate fin da subito chi additare come colpevole. Giunti ad “Elektra (An Evening with)”, seconda traccia, ecco che i suoni si espandono lentamente, la chitarra elettrica pulita, quella di Ettore Salati (eh sì, ancora una volta troviamo diversi complici a stuzzicare le nostre orecchie, incluso Guglielmo Mariotti alla voce nella precedente traccia, di cui stavo quasi per dimenticarmi) produce note sostenute che vibrano nell’aria satura. Prende corpo un loop tribale ed elettronico e la chitarra, ora distorta e tuonante, è come una scarica di mitragliatrice che si fa strada incoraggiata dalla batteria pestata. Lo sfondo tastieristico, quasi spaziale, sta sempre lì in agguato mentre le melodie sono frammentate ed insistenti. Il finale è inaspettatamente lirico e sinfonico.
Non si tratta di un album semplice, lo avrete capito. Dopo due tracce piuttosto lunghe, di 10 e 7 minuti circa, la breve “Lilith” è come un piccolo sogno ad occhi aperti col suo piano pulito, la filiforme chitarra acustica ed il Mellotron sinistro e dissonante a contrasto. E’ tutto un crescendo di intensità, complici le maestose tastiere ed il basso sostenuto di Bobo Aiolfi. Ma il bello deve ancora venire ed il cuore dell’opera è una lunghissima title track di quasi 24 minuti che ci tiene costantemente impegnati. I suoni elettrici e cadenzati sembrano a volte di ispirazione Sabbathiana, a volte Frippiana, ed in ogni caso appaiono pesanti e aspri. A tutto ciò si aggiungono le incursioni elettroniche che irrompono come se qualcuno cercasse continuamente di disturbare il normale fluire dei nostri pensieri. Un ruvido retrogusto vintage sembra essere stato collocato lì ad arte con lo scopo di farci ingurgitare una medicina amara. La sensazione è che qualcuno o qualcosa ci spinga inesorabilmente in un luogo ostile, fatto di sinistre geometrie e scenari alienanti. Ma se tutto attorno a noi sembra ingoiarci l’anima e condurci alle soglie della follia la soluzione forse è guardare dentro di noi.
La conclusiva “Inside You” è miele oscuro e scintillante, una benedizione inaspettata, grazie ad un’ospite davvero sorprendente come Tirill Mohn. La cantautrice norvegese che iniziò la sua carriera musicale con i White Willow, diciamolo per i più distratti, ha trovato in questa traccia qualcosa di estremamente affine alla sua poetica ed il risultato è davvero speciale. In questo contesto fatato e dolcemente malinconico si inserisce anche il violino di Letizia Riccardi. Non poteva esserci un sigillo migliore di questo per un’opera così capricciosa, dura e inafferrabile e considero quest’ultima canzone come una specie di promessa per un futuro che non tarderà ad arrivare. Qualunque esso sia so già che sarà, nel bene o nel male, sorprendente, quindi prepariamoci fin da ora.


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Jessica Attene

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