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Alessandro Corvaglia è senza ombra di dubbio uno dei migliori cantanti italiani degli ultimi 25 anni. Noto soprattutto per la sua militanza nella Maschera di Cera, presenta un curriculum di tutto rispetto, con svariate collaborazioni, a partire dai Delirium e passando per Giardino Onirico, Maurizio Di Tollo, Hostsonaten, Aurora Lunare, Narrow Pass, Samurai of Prog, ecc. Dopo tutte queste numerose esperienze, decide di puntare su un album solista, pubblicato dalla AMS Records nel 2021, in cui può sfogare in completa libertà il suo estro anche da un punto di vista compositivo. Alessandro raccoglie così 10 brani scritti in un ampio periodo che va dal 2006 al 2020, con testi in inglese che toccano tematiche sociali e autobiografiche. In più si contorna di musicisti di spessore, sia stelle di prima grandezza come Gordon Giltrap e Cesareo degli Elio e le Storie Tese e, sia nomi fondamentali del prog italiano (senza citarli tutti perché l'elenco è lunghissimo) quali Martin Grice, Marcella Arganese, Matteo Nahum, Andrea Orlando e i musicisti del Giardino Onirico. Fin dal primo brano emerge la sua voce inconfondibile che non perde minimamente colpi con il passare degli anni e sembra di intravedere un'espressività teatrale che ricorda il Fish dei primi Marillion. “Promised land”, questo il titolo dell'opener, mostra la capacità di Alessandro di abbinare un gusto melodico non indifferente a delle fondamenta legate al new-prog e al rock sinfonico più classico. Le composizioni seguenti sono variegate, ma si respira un senso di drammaticità continua, legato sì all'interpretazione del cantante, ma anche alle strutture e ai timbri sonori. E se durante l'ascolto non mancano nuovi spunti legati ai citati riferimenti marillioniani ("Preaching on line", "White ghosts"), si intravedono anche delizie strumentali annodate ai vecchi Genesis ("The night of the eyes", "... and the lady came in...", quest'ultima con un tocco à la Anthony Phillips) ed una ballata intrigante, "Where have I been?". Tra le varie chicche, ci ritroviamo anche di fronte ad una toccante e stravagante rivisitazione di "Vision", dal repertorio solista di Peter Hammill e ad un regalo donato da Gordon Giltrap, "12 tower", con atmosfere che riportano ad un sound caro al chitarrista inglese. Quest'ultima è una sorta di "risposta" allo stesso Corvaglia che omaggia il collega con la strumentale "A deed within a dream", un po' barocca e un po' danza folk-prog. La title-track chiude l'album in maniera a dir poco spettacolare: si tratta di un pezzo di ampio respiro che si avvicina ai dodici minuti, dall'incedere altisonante, in linea con la grandeur del prog sinfonico e con un favoloso ed emozionante assolo di chitarra di Cesareo nel finale, mentre tastiere e sezione ritmica creano delle basi solenni e affascinanti. È il momento di tirare le somme, ma avrete già capito che l'album è bello. Anzi, molto bello. I riferimenti e le influenze ci sono, ma è chiara ed emerge forte una personalità di spicco anche al di fuori di una dimensione di gruppo. Alessandro sforna una prova matura e professionale, conferma, anche se non era affatto necessario, le sue eccellenti doti di vocalist e si fa conoscere come autore che ha molto da dire.
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