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“LuxAde”, atto terzo in studio della Maschera di Cera, è un altro gran bel disco. I consueti ingredienti per farselo piacere ci sono tutti: la calda e poderosa voce di Alessandro Corvaglia, mai così bravo come in questa occasione; l’autentico arsenale di tastiere ‘antiche’ di Agostino Macor; i passionali flauti e sax di Andrea Monetti; l’incredibile basso distorto di Fabio Zuffanti, vera peculiarità del progetto; la robusta e precisa batteria del nuovo acquisto Maurizio Di Tollo. La band è sempre capace di far vivere forti emozioni, però... al confronto coi CD che l’hanno preceduto, in “LuxAde” emerge talora qualche (veniale) limite.
Il lavoro parte invero nel migliore dei modi: lo struggente tema pianistico tratteggiato in “Porta del cielo” ci introduce nel pernicioso dark di “Doppia immagine”, uno dei vertici assoluti in virtù della rimarchevole varietà di atmosfere, sempre ben condotte e ben intersecate. Al rimbombante basso, accompagnato dal flauto, segue una magistrale performance di Corvaglia sul registro acuto; veramente da brividi la maestosa apertura guidata dal mellotron, straniante l’assolo di sax. I dieci minuti di “Un senso all’impossibile” sono nel complesso più tenui, e situati in quell’ambito romantico-canterburiano che costituisce parte del DNA di Macor e Zuffanti; poderosa è tuttavia la conduzione tastieristica dopo il cambio ritmico (vedi Uriah Heep). Laddove pensavi a un’incisività leggermente minore, ecco che il bel finale epico rimette le cose a posto. “Orpheus” merita un discorso a parte, dato che su tale traccia è stato creato un video, scaricabile dal sito ufficiale. Forse per la prima volta la MdC ricerca, se non un hit single, almeno un pezzo più accessibile: lo fa a modo suo, senza alcun vero compromesso, shakerando l’aggressività del Biglietto per l’Inferno col gusto melodico della Locanda delle Fate. Ne vien fuori un qualcosa di intelligentemente anthemico ma non monocorde, che a me non è affatto dispiaciuto. Viceversa, alcune piccole crepe si notano nell’altro pezzo di dieci minuti, ovvero “Nuova luce”: bene la liquida intro di synth e il sognante connubio fra cantato e mellotron; più incerta la classicheggiante vivacizzazione sinfonica, a cavallo fra Keith Emerson e Semiramis. Pur piacevoli e tecnicamente all’altezza, non sempre questi giochi tastieristici sono originali e pregnanti: si ascoltano più che volentieri, ma il tutto rimane un po’ sub-standard dal punto di vista del songwriting. Molte luci e qualche ombra anche nella suite “Enciclica 1168”. Di alto livello la rabbiosa decadenza, cui seguono attimi di ieratica compostezza: ancora una volta affiora il Biglietto per l’Inferno (penso non sia casuale la citazione “Silenzio, son frate” presente nel testo...), ed è ottima l’interpretazione di Corvaglia. A grandi squarci, di profondo sentimento - da ascoltare l’assolo di Hammond - si accompagnano però passaggi che sanno di già sentito. E’ forse la prima volta che la MdC cita se stessa, e probabilmente per questo la parte centrale della suite non appare irresistibile; negli ultimi sei minuti, però, certi incubi ‘ballettiani’ si rianimano, e il valore cresce notevolmente: bella la martellante sequenza ritmica, con un cinereo mellotron in sottofondo. Il sintetico strumentale “Schema (v.s.d.)” funge infine da giusto compendio di alcune delle migliori idee tematiche del disco, e a menar le danze ci sono il flauto di Monetti, vagamente mediorientale, il basso distorto, il moog e l’Hammond.
Chi, neofita della MdC, si ritrovasse per la prima volta a mettere nel lettore questo “LuxAde”, rimarrebbe senz’altro a bocca aperta dalla meraviglia; tuttavia è anche vero che chi già conosce il resto della discografia seguiterà verosimilmente a preferire il debutto omonimo e “Il grande labirinto”. Spero non me ne vorranno Zuffanti & soci, che comunque - tengo a sottolinearlo - per me continuano a farsi un sol boccone di tutta l’attuale concorrenza nel settore.
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