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ISILDURS BANE (& JINIAN WILDE) The pearl of ever changing shell Ataraxia Production 2024 SVE

Dopo gli album realizzati con la collaborazione di Steve Hogarth e di Peter Hammill, ecco un nuovo lavoro nel quale gli Isildurs Bane sono accompagnati da un cantante britannico. A dar manforte al gruppo svedese in "The pearl of ever changing shell" ci pensa Jinian Wilde, che fa parte della David Cross Band.
Gli Isildurs Bane, nella loro ormai lunga carriera, hanno sempre puntato ad abbattere le barriere, esplorando vari territori stilistici e cercando di sorprendere l'ascoltatore. In questi dischi in cui si avvalgono di un cantante esterno hanno trovato una nuova dimensione, più diretta ed immediata. Ci sono linee melodiche orecchiabili, una maggiore verbosità ed un orientamento verso un pop-rock elegante e ricercato. Attenzione, però! Perché quella che è in apparenza una maggiore fruibilità legata alle parti cantate, è sempre controbilanciata da un apparato strumentale di primissima qualità e da arrangiamenti certosini, caratteristiche che rendono riconoscibile la band e che, ad attenti ascolti, lasciano a bocca aperta per l'abilità dei musicisti e per le esecuzioni brillanti. Infatti, il processo di composizione è stato simile a quello per gli album con Hogarth e Hammill, con il gruppo che aveva già preparato tutte le canzoni e che ha poi dato ampia libertà a Wilde per la stesura dei testi e per l'elaborazione delle melodie vocali.
"The pearl of ever changing shell" si apre con le due parti di "Rise", che superano il quarto d'ora e che rappresentano il vertice del disco. Si inizia con un'atmosfera molto misteriosa, lenta e rarefatta, quasi a rievocare i migliori Talk Talk. Poco prima dei due minuti entra in gioco Wilde con la sua voce cristallina, che si impegna in una melodia molto gradevole e che rappresenterà un po' il leit motiv della composizione. Intanto la musica cresce di intensità, c'è un breve passaggio sperimentale, seguito da una bella accelerazione verso i quattro minuti e mezzo. Si va avanti, tra cambi di tempo, alternando tentazioni zappiane, con l'apparato percussivo che come sempre fa faville, orchestrazioni stravaganti, oasi pacate, effetti elettronici non invadenti e momenti più nettamente centrati sul cantato, che, passando anche per riprese del tema principale, contribuisce ad alimentare giuste dosi di malinconia.
Gli altri brani non riescono a raggiungere gli stessi vertici di pathos, ma si tratta comunque di episodi di buonissimo livello. "Sign of the times" si muove negli anni '80 di XTC e Peter Gabriel e li porta ai giorni nostri. "Born afraid" vira più verso sentieri battuti dai King Crimson nelle loro ultime escursioni in studio, aggiungendoci poi un tocco orchestrale decisamente particolare. E per una "Sailing home" che sembra mischiare psichedelia e pop sinfonico, ecco "Avalon", che mostra la capacità di Mats Johansson e soci di muoversi tra prog, divagazioni classicheggianti e rock d'avanguardia, senza perdere di vista l'aspetto melodico. L'album di chiude con grande eleganza, grazie a "Lifetimes", lenta ballata elegiaca, con pianoforte, voce e suoni orchestrali in primo piano.
Album che di primo acchito appare "facile", ma che ad ascolti attenti fa scoprire man mano una serie di trovate e di delizie di primissimo ordine come capita in ogni opera degli Isildurs Bane.

 

Peppe Di Spirito

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