|
A dir la verità quest’album, di primo acchito, non mi attirava più di tanto. Gli Isildurs Bane, dopo i primissimi album, laggiù negli anni ’80, in cui alternavano splendido Prog sinfonico a scialbissima fusion, si erano dedicati a un rock cameristico e avanguardistico che li aveva proiettati nell’olimpo delle band di culto ma per il quale si erano situati un po’ ai margini dai miei particolari gradimenti musicali, pur apprezzandone ovviamente l’attitudine e buona parte della loro produzione. Steve Hogarth, per contro, non era invece mai entrato appieno nell’elenco dei miei idoli musicali, da bravo fan marillioniano della (quasi) prima ora, pur non avendo certo mai fatto una colpa di essere stato il rimpiazzo di Fish. L’unione di questi nomi nella pubblicazione di quest’album, come dicevo, mi ha lasciato piuttosto freddo. Gli Isildurs Bane devono ancora registrare numerosi cambi di formazione, coi soliti Mats Johansson e Kjell Severinsson a timbrare il loro ennesimo cartellino; attorno a loro c’è una sorta di orchestra, con violino, contrabbasso, Theremin e fiati, tra cui riconosciamo ancora la presenza di Christian Saggese e Luca Calabrese, ovvero due terzi del Metamorfosi Trio che da tempo collabora con gli svedesi. L’album è costituito da 6 canzoni per un totale di 41 minuti che, minuto più minuto meno, è la durata ideale di un album. Alla prova dei fatti devo ammettere di essermi ricreduto alla grande sui miei timori iniziali perché questo ritorno in sala di registrazione della band svedese, dalla quale era assente da ben 14 anni, mi ha addirittura entusiasmato. Alla fine la ricetta per il successo consiste in una efficace costruzione dei brani, dal netto sapore cameristico, lento e misurato ma senza perder mai di vista il fluire della musica. Hogarth, dal canto suo, canta spesso quasi sottovoce, alzando raramente i toni (e questo è positivo), addirittura ricalcando talvolta uno stile alla Tom Waits (“Diamonds and Amnesia”). La musica non è tuttavia uniforme e all’interno di alcuni brani, quali l’opener “Ice Pop” o il lungo “The Love and the Affair”, moderate accelerazioni più rockeggianti sono comunque presenti, anche se si tratta di brevi momenti, prima di lasciare di nuovo spazio all’incedere pacato e anche in qualche modo inquietante, malinconico e meditativo. La musica, pur con le caratteristiche descritte, è sempre comunque ricca di suoni e quel che manca non è di certo la presenza di strumentazione e di varietà musicale o, più in generale, un ottimo songwriting. Ammetto di essere rimasto affascinato dalla musica presente in questo bellissimo album ed apprezzo anche il valido contributo che la voce di Hogarth, sfruttata in maniera valida (le canzoni sono state composte proprio pensando alla sua voce), riesce a donarle.
|