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JADIS More than meets the eye GEP 1992 UK

Un altro CD da etichettare AAA (dove A sta per acquistare), sempre che amiate il new-prog inglese, ovviamente. Dopo un paio d'anni di gestazione, durante i quali Martin Orford si è barcamenato tra Jadis, IQ e il suo lavoro al cantiere navale, vede finalmente la luce l'album di quello che, per un certo periodo, è stato il gruppo di punta del Prog britannico, prima del ritorno degli IQ, prima di "The world", prima dell'abbandono di Nick May. Proprio la presenza di Nick, bassista e chitarrista dal buon passato che ha lasciato il gruppo poco prima dell'inizio delle registrazioni, avrebbe potuto contribuire a rendere un attimo più variata la musica dei Jadis e ad offrire così un prodotto ancora migliore. E' una velata critica ma già ai tempi dei vecchi Jadis, di cui il solo Gary Chandler è superstite, la musica non eccelleva per audacia e varietà creativa, avendo il suo punto di forza in una chitarra onnipresente coi suoi riff prolungati e mai aggressivi, ma che talvolta irrompe come una sciabolata. Martin, col proprio ingresso si limita a mettere la propria impronta in un'architettura già consolidata, cosicché l'album appena uscito non è molto diverso da quello pubblicato quasi di nascosto da Peter Salmon nell'89. Tra l'altro, 3 dei 7 titoli di questo CD sono vecchie composizioni: "Hiding in the corner" (inedita in studio), "G13" e "The beginning and the end", queste ultime due già presenti in vecchi demos. Ad ogni modo si tratta di un bell'album, per intendersi: un ottimo modern prog che cerca di portare avanti il prog inglese, strizzando ancora l'occhio alle vecchie sonorità.
Detto dei due componenti principali, è da dire che il drummer è Steve Christey e il ruolo di bassista è ricoperto da John Jowitt. Senza dubbio i punti focali del CD sono tre: l'inizio, con l'ottima "Sleepwalk", autentico paradigma dei nuovi Jadis (riff a raffica, maggiore importanza delle tastiere, finale con Mellotron); la coppia di brani centrali "Wonderful world" / "More than meets the eye" legati assieme, l'uno piuttosto convenzionale, l'altro più pacato ed in cui la parte maggiore è a carico del flauto suonato da Martin; il finale con l'ottima "Holding your breath", da ascoltare trattenendo il respiro, è forse il pezzo migliore dell'album, con la sua struttura variegata e camaleontica. Dico forse perché, e ritorno su tasti già premuti, l'insieme è abbastanza omogeneo e difficilmente una composizione spicca sulle altre.

 

Alberto Nucci

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