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Amanita, Arjuna, Ku e ora Alhambra: sono dunque già quattro finora, se abbiamo tenuto bene il conto, i progetti del flautista e polistrumentista Andrea Monetti che hanno avuto un'edizione discografica. Il curriculum del Nostro, oltretutto, negli ultimi tempi è diventato sempre più prestigioso, e sono diversi i gruppi nei quali egli presta i propri servigi, dalla Maschera di Cera agli ultimi Finisterre per non dire degli storici Embryo, nel cui giro è entrato a pieno titolo grazie all'investitura ufficiale di Christian Burchard. E non a caso il kraut-rock, versante etno/psichedelico, costituisce una delle inclinazioni preponderanti di questo CD, che racchiude otto tracce di media lunghezza e dalle atmosfere solitamente pacate. I momenti in cui i volumi si fanno un po' più robusti non sono quindi molti, ma risultano affrontati con cognizione di causa, a cominciare da "Primavera", pezzo che in parte si riallaccia alle vecchie cose di Amanita e Arjuna: la chitarra elettrica e il basso macinano poderosi, ben sostenuti dall'Hammond, mentre colpisce la freschezza del riff di "Dèi avversi". Inconsueto, poi, il sound filtrato dell'energica sei corde nello strumentale "Cronotopo di Bachtin", con le probanti digressioni flautistiche di Monetti. Ma a parte questi episodi, si rimane nell'orbita di una psichedelia progressiva che predilige toni morbidi ed acustici, come nell'iniziale "Nazarè": non del tutto a fuoco l'insistenza del cantato sul registro basso, però va a buon fine la contaminazione con certo folk oscuro di stampo Comus o Titus Groan. "Pink caravan" è, fin dal titolo, un omaggio alle felpate raffinatezze della band canterburiana, mentre nelle restanti tracks emerge più netto il legame con l'attitudine freak-teutonica, che si estrinseca al meglio nell'affascinante "Ulisse nella nebbia" e nel suo arcano Hammond, cui seguono gli interventi del flauto e del piano elettrico. Il bouzouki e le percussioni di "Fengari" ci rapiscono infine in quei territori orientali sondati da Amon Düül II e dagli stessi Embryo. Un disco che, pur meno immediato rispetto ad altre opere di Monetti (a proposito, anche l'inquietante copertina, quantomai in tema, è opera sua), conserva quella spontaneità da jam-session che è un po' il trademark del musicista bolognese, al quale va rivolto comunque un plauso: è un personaggio autentico e genuino che fa esattamente ciò che vuole, infischiandosene di quelle mode che, purtroppo, anche all'interno del prog esistono.
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