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Il titolo di questo album, che sembra tra l’altro una buffa variazione di “In the wake of Poseidon”, mi fa particolarmente sorridere: appellarsi all’evoluzione per un album che è un liofilizzato edulcorato del vecchio Prog d’annata, senza l’aggiunta di un briciolo di fantasia in più rispetto alle recenti produzioni dei nuovi Kaipa, mi suona addirittura ridicolo. Ma ricomponiamoci per cercare di analizzare in maniera più obiettiva il secondo capitolo dei Kaipa post-Stolt (ricordiamo che lo storico membro, sempre sostituito da Per Nillson, ha lasciato i Kaipa interamente nelle mani del tastierista ed anziano amico Hans Lundin col precedente album). Notiamo fin dalla prima traccia che la scelta di Lundin è stata (come del resto mi auguravo nella recensione del precedente album) quella di guardare al repertorio storico della band, in particolare per quel che riguarda le scelte delle tastiere, che per lo meno nel disegno melodico, ricordano qualcosa a cavallo fra gli Yes e l’antico album “Solo”. Nel disegno melodico, lo ribadisco, perché i suoni sono una trasposizione digitale di quelli vintage del passato. Soprattutto le parti vocali sono quelle più sofferenti: sono interpretate da due voci splendide, quelle già collaudate di Patrik Lundström ed Aleena Gibson, ma le loro partiture sono Sanremesi, leziose e scolastiche, fatto questo che risalta ancora di più se facciamo un confronto con la performance di Patrik nei suoi Ritual. A dispetto delle mie amare considerazioni non parliamo però di un album disastroso: i livelli di composizione ed arrangiamento sono sicuramente più alti del mediocre album precedente (“Angling Feelings”) e forse anche di più rispetto a “Mindrevolutions” e “Keyholder”. Lundin ha tentato di arricchire tantissimo le sue canzoni, di renderle più particolareggiate e varie, pur cercando di non abbandonare mai la strada maestra segnata dalla melodia, ma purtroppo il risultato, almeno nella mia opinione, non è all’altezza delle intenzioni. Gli occhi di Lundin devono essere diventati strabici a forza di guardare, da una parte verso i cugini Flower Kings (che sono senza dubbio da collocarsi su un piano superiore) e dall’altra verso i lavori dei suoi stessi Kaipa risalenti agli anni Settanta, ma per guarire da questa malattia il nostro amico dovrebbe davvero guardare avanti, come suggerito dal titolo stesso del suo nuovo album, e riscoprire sé stesso. Troppo spesso la mente vola in maniera deleteria alle band già citate, deleteria per Lundin perché, nonostante gli evidenti sforzi e l’evidente capacità dei suoi musicisti (che includono anche altri due splendidi elementi come il bassista Jonas Reingold ed il batterista Morgan Ågren) il risultato è un album di Prog sinfonico discretamente realizzato ma manieristico, goffo, vuoto ed ammuffito, a dispetto della patina superficiale data dalla lucentezza, anche eccessiva, dei suoni. Per i musicisti che compongono i nuovi Kaipa suonare questa musica è un esercizietto da bambini delle scuole elementari ma per il Progressive Rock, che reclama sempre più nuovo e prezioso ossigeno, è invece dannosissima CO2. Siate ecologisti e passate oltre.
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