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KAIPA Vittjar Inside Out 2012 SVE

Facciamo bene i conti: questo è l’undicesimo album in studio dalla nascita dei Kaipa, il sesto dalla loro rifondazione (più che reunion) del 2002 ed il terzo dall’abbandono di Roine Stolt, co-fondatore della band assieme all’altro veterano Hans Lundin. Una copertina molto simile a quella del precedente album dimostra, assieme ad una formazione immutata che sfila anche con i medesimi ospiti (Fredrik Lindqvist dei Ritual al flauto e Elin Rubinsztein al violino) che non ci siamo allontanati troppo da quel seminato.
Il gruppo, lasciato interamente nella mani di Lundin (che pure ne è sempre stato il principale compositore, ricordiamolo) è completato sempre da Jonas Reingold (Flower Kings e Karmakanic) al basso, da Morgan Ågren (Mats & Morgan) alla batteria, dalla coppia vocale costituita da Patrik Lundström (Ritual) e Aleena Gibson ed infine dal chitarrista Per Nilsson, ormai rimpiazzo stabile di Stolt.
Hans Lundin continua a coltivare con questa nuova proposta il sogno di un album che si avvicini allo spirito sinfonico degli esordi e, come a dar risalto alla sua svedesità, cerca di imprimere maggior enfasi anche alla componente folk, attraverso i soliti intarsi di flauto e violino, inseriti comunque col contagocce. Questo è vero soprattutto per la title track che riprende abbastanza fedelmente un motivo tradizionale (“Eklundapolskan”) molto celebre e interpretato ormai diversi anni orsono da artisti come Kebnekaise e Merit Hemmingson e che sfoggia, come ad amplificare il richiamo alle proprie radici, delle liriche in svedese (per il resto viene usato come al solito l’inglese) che finalmente mi fanno apprezzare, in questo contesto, una performance vocale del bravissimo Patrik sentita e sanguigna. Questo brano, comunque breve, rappresenta per quel che mi riguarda il vertice del disco che per il resto contiene né più né meno che la solita pappa.
Chissà che il gruppo non ritrovi prima o poi la propria strada proprio attraverso delle sane radici folk? Del resto, anche la traccia di apertura, “First Distraction”, è decisamente carina con il suo flauto dolce e le sue cadenze tradizionali. Ma, come dice il titolo stesso, si tratta di una piccola distrazione, la realtà la sorbiamo già con la traccia successiva, una prolissa “Lightblue and Green”, di dodici minuti, seguita da un brano che è lungo quasi il doppio e che si rivela doppiamente noioso e diluito: “Our Silent Ballroom Band”. Proprio questo colosso dai piedi di argilla mette in evidenza le carenze compositive del gruppo che non trova una sua compiutezza e che sembra eccessivamente divagare. La prima metà del brano stenta decisamente a decollare e l’intermezzo strumentale con il suo bravo assolo di chitarra incastonato nel mezzo non ne risolleva le sorti fra cori cantabili, un appeal a tratti eccessivamente radiofonico e ben pochi guizzi di fantasia avidamente distribuiti in un minutaggio così lungo. Con “Treasure House”, dai ritmi quasi reggae, si tocca decisamente il fondo ed è come cadere in un precipizio visto che il brano è preceduto proprio da quel “Vittjar” di cui ho poco fa intessuto le lodi. Ci vogliono ancora circa diciannove minuti per totalizzare l’ora di durata dell’opera completa, suddivisi in tre brani, quello conclusivo, brevissimo e assolutamente niente male (e forse non a caso è un'altra distrazione: "Second Distraction"), e gli altri due che raggiungono rispettivamente e approssimativamente i 7 e i 10 minuti.
Io invece non ho molte altre considerazioni da aggiungere: diciamo che il pregio principale dell’album è rappresentato dalla sua produzione brillante e pulita con suoni forse eccessivamente levigati che rappresentano un moderno surrogato di quelli vintage degli esordi. Il cantato è tecnicamente valido ma non posso che muovere ancora una volta il solito appunto che riguarda un’interpretazione forse troppo asettica e priva di calore.
Non metto in dubbio che questo album rispecchi l’indole e le aspirazioni del gruppo, tra l’altro decisamente capace (ma non credo ci sia neanche bisogno di scriverlo, visti anche gli ottimi curricula dei musicisti di cui non mettiamo assolutamente in discussione la bravura) che sicuramente non raggiungerà quote di vendita tali da far crescere il suo conto bancario ma non è assolutamente questo il punto: questa formula edulcorata e patinata che sempre più spesso vediamo recensita con apprezzamento nelle testate Prog Metal rimane per me qualcosa di cui il nostro genere potrebbe fare benissimo a meno, un involucro bello ma senza reale sostanza, e lo dico con infinita tristezza.
Visto che la speranza è l’ultima a morire e che i Kaipa si dimostrano una realtà longeva e prolifica non posso che augurare al gruppo un futuro più roseo e soprattutto ispirato. Ci rivediamo quindi alla prossima puntata!


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Jessica Attene

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