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THIEVES' KITCHEN |
One for sorrow, two for joy |
autoprod. |
2013 |
UK |
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E’ passato un bel po’ di tempo da “The Water Road”, l’album che, uscito nel 2008, segnava la fusione anglo-svedese del gruppo, grazie all’arrivo provvidenziale del tastierista degli Änglagård Thomas Johnson che aveva fatto da fulcro per un rinnovamento totale di prospettive sonore. Quella filastrocca “One for sorrow, two for joy”, sussurrata in apertura, forse vuole riportare il baricentro verso l’Inghilterra. Si tratta infatti di una tradizionale nursery rhyme che fa riferimento alle gazze, che vedete raffigurate nella copertina del disco, una di quelle graziose poesie per l’infanzia che hanno trovato posto anche nell’immaginazione di molti musicisti, non ultimi ovviamente i Genesis. Nel contempo la line-up ha subito una contrazione, con l’abbandono del batterista Mark Robotham e del bassista Andy Bonham, entrambi presenti fin da “Head”, l’esordio del 2000, e ora sostituiti da due ospiti, Paul Mallyon e Brad Waissman rispettivamente, sottratti momentaneamente ai Sanguine Hum. I Thieves’ Kitchen sono così diventati un trio con Thomas che conserva il suo ruolo di tastierista ufficiale, Amy Darby alla voce, il cui arrivo avvenne nel 2003 in occasione di “Shibboleth”, e Phil Mercy, unico veterano rimasto, alla chitarra. Fra le fila degli ospiti va infine citata Anna Holmgren degli Änglagård al flauto. Questo è tutto e il sound si è di fatto molto asciugato. Contestualmente è parzialmente svanita quella sensazione di ascoltare qualcosa del nuovo filone scandinavo in favore di soluzioni pur sempre abbastanza complesse ma più nitide negli arrangiamenti. Non vi sono grosse impalcature orchestrali né folk o tribali ma la partita si gioca essenzialmente a livello vocale, con Amy che si trova sempre al centro con tutti gli strumenti che ruotano attorno ai suoi continui saliscendi. Ne deriva anche un album molto misurato e compatto, in cui non mancano a volte accenti fusion e spartiti intrecciati con molti cambi di accordi, ma realizzato soppesando bene ogni ingrediente. Il timbro limpido e acuto di Amy viene ingentilito ulteriormente dal pianoforte e anche dal suono del Mellotron (anche se questa volta Thomas ha preferito un surrogato), dell’organo e del Rhodes. L’album è, a conti fatti, anche più scorrevole del pur ottimo “The Water Road” anche se le sue principali colonne portanti sono le due lunghe tracce “Germander Speedwell”, di oltre quattordici minuti, e la conclusiva “Of Sparks and Spire” con i suoi dodici e più minuti. La prima di queste si apre con un preludio molto elegante intessuto da archi e flauto, che si intrecciano per un po’ anche al canto degli uccelli, e continua su sentieri sognanti e dilatati, con i suoni caldi della chitarra acustica e morbide coltri di tastiere sullo sfondo. Questa volta il cantato è ridotto al minimo e questo permette alla musica di respirare e al tempo stesso la morbidezza degli arrangiamenti fa di questo un brano di grande atmosfera. Discorso un po’ diverso per “Of Sparks and Spire” che appare più energica e complessa con bei riferimenti agli Echolyn o anche ai Glass Hammer quando c’è più movimento e ai Genesis quando invece vengono preferite soluzioni più sinfoniche. Non era proprio scontato chiudere l’album con un brano così strutturato e forse proprio quest’ultima traccia risulta essere, a conti fatti, quella di maggior pregio. C’è poi da dire che, pur avendo parlato di un baricentro un po’ più anglicizzato, non siamo affatto in territori New Prog o comunque eccessivamente romantici e mielosi, il gruppo propone ancora una volta musica sostanziosa che non deluderà sicuramente quanti si sono lasciati già convincere da “The Water Road”. Se i Thieves’ Kitchen non lasceranno passare tutto questo tempo prima di tornare in studio, ci sta che, seguendo la scia positiva di questo lavoro, riescano a tirare fuori qualcosa di ancora più sorprendente. Per il momento comunque quanto abbiamo nelle nostre mani presenta delle indubbie qualità, assolutamente da non sottovalutare.
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Jessica Attene
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