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THIEVES' KITCHEN Genius loci autoprod. 2019 UK

Nei tempi antichi si credeva che alcune divinità o spiriti fossero così legati ad alcuni luoghi da rappresentarne l’anima stessa. Questo è il Genius Loci e da luoghi speciali che hanno ispirato il gruppo con la loro unica energia nascono le cinque canzoni di questo nuovo album. I Thieves’ Kitchen sono per metà svedesi e per metà inglesi dal 2008, anno di uscita di “The Water Road”, grazie all’arrivo di alcuni membri degli Änglagård, ma i testi sono tutti della cantante Amy Derby e pertanto, nonostante la doppia nazionalità, rimarremo saldamente in terra inglese. Flauto (Anna Holmgren), basso (Johan Brand) e tastiere (Thomas Johnson) giungono dalle lande scandinave mentre alla terra di Albione appartengono, oltre alla voce che ho già citato, anche la chitarra di Phil Mercy e la batteria di Paul Mallyon.
Anche per quanto riguarda la musica però assistiamo ad un processo di anglicizzazione di quel particolarissimo ibrido dai marcati sentori nordici che tanto ci saltò all’orecchio alcuni anni fa. Anche se le uscite sono state negli anni molto dilazionate, con soli due album (l’ultimo del 2015) sopraggiunti a separare questo nuovo da quello più vecchio citato poc’anzi, la qualità non è mai venuta meno mentre col tempo devo dire che i brani sono divenuti più amalgamati ed omogenei fra loro, con esigui sbalzi emotivi e stilistici e ben poche sorprese.
Il nostro viaggio parte dall’abbazia di Malmesbury, nello Wiltshire, dove un monaco di nome “Eilmer”, più di mille anni fa, fu il primo uomo a volare in Inghilterra. Sonorità dolci ed arrangiamenti intriganti, fragranze folk, linee morbide jazzy ed un cantato limpido e ben articolato su più tonalità fanno scivolare il brano dolcemente nonostante i continui dislivelli. Riferimenti puntuali li troviamo verso Echolyn, Genesis e Gentle Giant, mescolati in una formula garbata e povera di contrasti. Questa elegante pittoricità, le tante variazioni impercettibili, il gusto nell’assemblare le idee in modo tutt’altro che appariscente, rendono la musica estremamente fruibile ma ricca di particolari da scoprire ad ascolti successivi. I brani sono quasi tutti di minutaggio medio lungo e dopo i nove minuti del pezzo di apertura, con “Uffington” siamo oltre gli undici. Il cavallo bianco di Uffington è una figura preistorica tracciata sul pendio di una collina incisa con solchi di oltre un metro che lasciano vedere il gesso sottostante. Come il dolce profilo di questa collina e le eleganti linee che individuano la figura su di essa tratteggiata, la musica segue percorsi morbidi. La voce di Amy si muove lungo traiettorie ritmiche delicatamente frastagliate, col Mellotron che dona profondità ad un brano scorrevole e piacevolmente monotono. Il flauto aggiunge preziosi dettagli sinfonici mentre la chitarra si concede divagazioni soft jazz in un contesto globale equilibrato e di classe.
“The Poison Garden” è un breve idillio, un momento di quiete incastonato al centro di album complesso anche se non complicato. Non sappiamo a quale giardino di preciso ci si riferisca ma si tratta di un luogo che nasconde segreti antichi custoditi da una donna in apparenza folle. Queste melodie semplici in cui risaltano il piano limpido e la voce di Amy fanno da preludio ai venti minuti di “The Voice of the Lar”. I lari, nella mitologia romana, sono gli spiriti protettori degli antenati defunti che vegliano sulla casa e sulla famiglia che vi abita. Ma cosa accade quando una casa viene abbandonata e lasciata in rovina? Lo scopriamo con un brano ben articolato che svela presto tutta la sua sinfonicità con le sue aperture tastieristiche Genesisiane, le generose pennellate di Mellotron ed architetture in stile Yes con basso in evidenza. La prima parte del lungo brano è dominata da momenti strumentali in cui si tenta di sviluppare a fondo le idee, seguendo percorsi segnati dalla melodia ma caratterizzati anche da preziosi arrangiamenti. Ha un ruolo chiave in questo senso la chitarra di Phil Mercy che si esibisce in fraseggi e lunghi assoli senza sopraffare l’impatto globale di un brano ben proporzionato. La voce di Amy arriva soltanto dopo 8 muniti ed è come al solito un ingresso dolce che sfocia ancora in sequenze Yes oriented abbastanza spigliate ma dai riflessi malinconici proprio a causa delle liriche e del cantato sempre delicato e sognante.
“Mirie it is” è un brano risalente al tredicesimo secolo, il più antico fra quelli inglesi che conosciamo, giunto fino a noi grazie ad un manoscritto conservato nella Bodleian Library di Oxford. I versi e la melodia che possiamo ascoltare sono quelli originali ma vengono magicamente stemperati in una rilettura sinfonica dai colori sfumati e dalle fragranze soft jazz con un risultato finale originale ed ammirevole. La delicatezza degli arrangiamenti, le sensazioni di ascolto ovattate, le soavi intersezioni di flauto e Mellotron in uno scenario sonoro dai riflessi post rock rendono questo brano, discreto ed intimistico, qualcosa di unico.
I Thieves’ Kitchen sono tornati con un album all’altezza della loro discografia, scegliendo di conquistare l’ascoltatore nel modo meno semplice, attraverso brani sofisticati ma allo stesso tempo poco appariscenti. Sono certa che la sincerità di questa proposta ispirata e curata darà loro ragione e saprà conquistarsi quegli ascoltatori che non si lasciano stupire dagli effetti speciali ma che sono disposti ad approfondire.



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Jessica Attene

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