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Non certo brutto, al giorno d’oggi, ma neppure facile, il lavoro del chitarrista in una band di progressive rock. Troppo forti e troppo diffuse le tentazioni petrucciane, per resistervi e magari determinare un’impronta dominante piuttosto che un’altra. Non certo brutto, al giorno d’oggi, ma neppure facile, il lavoro del cantante in una band di progressive rock. Ritrovarsi con una bella voce dai tratti un po’ Hogarth, un po’ Hall, un po’ Bono e un po’ bluesman, ma dimostrare palesemente che fin da bambino sei cresciuto con una o con un’altra storica voce del rock. Forse (forse) un pelo più facile è essere tastierista, che tu sia cresciuto con Wright, con Wakeman, con Emerson o con Banks fa poca differenza se ti mettono (o ti metti) in un angolino a fare tappeti sonori alle scorribande chitarristiche. Da questo miscuglio di essere e non essere, nasce un nuovo supergruppo: Rob Reed, Luke Machin, Andy Edwards e Dylan Thompson, inutile mettersi ad elencare i vari Magenta, Frost*, IQ, The Tangent ecc. ecc., tanto sono tutti nomi a noi noti. Quindi nasce dal new prog per finire dove? Vediamo. Come intuibile dalla mia premessa, penso sia chiara una forte predominanza power, non parlo di metal, anche se spesso ci si picchia abbastanza vicini. Si tratta di un hard prog dalle tinte power, epiche e comunque romantiche con una generica attitudine AOR. Non troppo prog, diciamolo, genere lasciato un po’ all’intuito e all’orecchio dello scafato progster che andrà a cercarsi quel suono simil mellotron o quel seiottavi tanto carino o quell’intreccio di acustiche che faccia un po’ seventies. Ricerca, qui, mai troppo facile. Non intuibile dal booklet a chi sia attribuibile la composizione dei brani, anche se sarei, vista la grande dominanza delle chitarre, tentato di dire Luke Machin, ma potrei anche sbagliare. Arrangiamenti, invece, chiaramente d’ensemble, ricchi, sempre tronfi e pomposi, molto raffinati e puliti, grande professionalità, grande preparazione, senza dubbio. Brani non troppo dilatati, ma neppure nel formato canzone, diciamo che siamo nella media dei sei minuti con punte di otto e mezzo. Avvio decisamente power con “Cold black heart” e ingresso diretto nelle tematiche della band e messa in chiara evidenza delle ottime capacità di tutti gli elementi soprattutto del vocalist che dimostra notevole duttilità, potenza ed equilibrio. Buono, forse il brano migliore per “Muzzled” in bilico tra blues e prog, qualche ruberia floydiana qui e là, ma un brano con composizione ed esposizione assai valida. Da citare anche l’atmosfera più ballad e ben rotolante di “Free”, brano conclusivo del lavoro in sapore Marillion/Gilmour, ma anche “Slip away”, più lunga e articolata, vagamente Hogarthiana, molto ricca per lo sviluppo armonico e melodico. Tutto sommato un buon lavoro, non troppo personale, ma piacevole, non molto prog, ma assaporabile per quel che propone, perché lo propone bene. Sarebbe stato bello poter vedere Reed in maggior evidenza, ma la scelta non è stata quella. Su tutto, tanto, tanto consumo di energia, ma d’altronde: “Chi ama brucia”, diceva un vecchio jingle pubblicitario, Kiama, appunto.
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