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Per la loro ottava prova discografica, escludendo il live, singoli e collaborazioni, la band di Gustav Ejstes (tastiere, flauto) torna ad essere quella spensierata e briosa di “Skit i allt” (2010). Le sperimentazioni e divagazioni di “Häxan” (2017), colonna sonora lisergica che sembrava aprire nuove interessanti prospettive, sono ormai lontane e si torna verso territori più affini al rock con sfumature prog psichedeliche che il gruppo svedese sa declinare con disinvoltura ed intelligenza e che non avrei problemi a definire “commerciali”, se solo riuscissi a capire dove è oggi l’anima del commercio nella musica. Le atmosfere riverberanti e fumose vengono convogliate in una formula radiofonica che mette in evidenza le linee melodiche e le parti cantate, impreziosite da cori affabili ed immerse in ambientazioni soft ed iridescenti. Gli arrangiamenti sono spesso essenziali e raffinati con una maniacale attenzione riposta nelle sfumature di suoni sempre piacevolmente vintage e tastieristici. Reine Fiske (ricordate i Landberk?) come al solito è un abile ricamatore con la sua chitarra discreta e versatile che non ruba mai la scena per arricchire con garbo un contesto musicale diretto ma sempre ben strutturato. “Skövde”, la traccia di apertura, si regge quasi unicamente sulle melodie vocali che rimangono subito impresse nel loro disegno, anche se sono in svedese come al solito e non possiamo quindi afferrarne il significato. Il resto è solo un contorno, ben elaborato certamente, ma indefinito, lontano e inafferrabile fatto dei ritmi leggeri e regolari della batteria (suonata da Johan Holmegard), di linee chitarristiche filiformi sostenute al bisogno dal basso di Mattias Gustavsson, con un apporto tastieristico che è quasi trasparente. L’album è fatto di tanti episodi più o meno del medesimo spessore come “Höstens Färger”, Beatlesiana fino al midollo, come “Nattens Sista Strimma Ljus”, spensierata e vacanziera e rinvigorita dalla chitarra, questa volta piacevolmente distorta, o come “Om Natten” una specie di ninnananna dolce e spenta. I momenti più interessanti ed articolati sono estremamente diluiti nell’arco dell’album per non comprometterne troppo la digeribilità e li possiamo apprezzare in particolar modo in “Möbler” con i suoi preziosi quanto discreti inserti organistici, e le atmosfere psichedeliche e sfumate che si sciolgono in una corposa porzione strumentale finale. Possiamo intravederli negli arrangiamenti vagamente sinfonici che emergono da “Om Det Finns Något Som Du Vill Fråga Mig”, sempre cantabile, per carità, ma comunque ben arrangiata. Cosa ne è stato dei Dungen? Allo stato attuale mi sembrano come quegli atleti con una corporatura invidiabile che si mettono in mostra eseguendo in modo impeccabile esercizi in realtà semplici. Volevano ammazzare un po’ il tempo? Volevano giusto pubblicare un album perché era tanto che non li vedevamo? Non sto parlando di un album ispirato ma di un tipo di musica che i Dungen sanno suonare molto bene e che per questo non è da sottovalutare ma neanche da ritenere soddisfacente.
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