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La sgargiante copertina non lascia dubbi circa le tendenze stilistiche di questa giovane band svedese: come i conterranei compagni di etichetta Dungen questo quintetto si getta a capofitto nella polverosa psichedelia da cantina di fine anni Sessanta, creando un coloratissimo revival che fa somigliare questo album ad un vecchia perla dimenticata di quegli anni. Gli stessi Mattias Gustavsson e Reine Fiske dei Dungen (anche se Fiske è sicuramente meglio ricordato per la sua militanza nei Landberk e Paatos) intervengono suonando il basso ed il violino in alcune canzoni. I suoni sono suadenti e distorti, magnetici e grezzi, riverberanti di mille colori e sensazioni e fanno apparire il mondo come se lo si guardasse attraverso una bolla di sapone piena di fumi aromatici. La voce acida ed ammaliante di Andreas Stellan canta, con parole vaghe, di esperienze che alterano i sensi. La musica è di quelle che bene si apprezzano a volume ben alto, in un impianto polveroso e scadente, contro ogni logica educata di audiofilia, ed ha proprio per questo un impatto travolgente e genuino. La batteria presenta un assetto al minimo ma è pestata in maniera travolgente, come in una vera band da cantina dei bei tempi andati. La chitarra è distorta al punto giusto, e a volte sembra quasi che venga schiaffeggiata, con un bell'inserimento di riff acustici, e le tastiere hanno un sapore piacevolmente vintage ed i suoni sono impastati e non lesinano riverberi, come se fossero stati catturati in presa diretta con un microfono panoramico. Sembra quasi di fare un balzo indietro nel tempo nella Stoccolma di un tempo, quando i gruppi svedesi si rifacevano alla psichedelia e al bit inglese. In questo guazzabuglio di suoni non viene mai meno l'aspetto melodico e in un certo senso sembra quasi di vedere qualche sottile collegamento verso le produzioni dei Lanberk Un album divertente di puro revival, per chi ama gettarsi in certi suoni e lasciarsi travolgere da certe sensazioni.
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