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Con “Stadsvandringar”, il loro secondo album (noto anche come “Dungen 2”), i Dungen sono riusciti a campare un po’ di rendita. Forti di un contratto con la Virgin che ha fruttato loro una discreta visibilità e di un singolo, “Panda” (tratto dal successivo “Ta det lugnt”), che è stato persino presentato nel celebre talk show della NBC Late Night With Conan O’ Brien, allo stato attuale riescono, grazie anche a questo potente traino, ad attirare l’attenzione di un pubblico fedele ed abbastanza allargato, come testimoniato dalle numerose recensioni che riguardano questo sesto album appena pubblicato. Nonostante rimangano fedeli alla loro lingua madre, lo svedese, e al loro credo musicale, una deliziosa psichedelia d’annata un po’ demodé, notiamo che l’attenzione della scena musicale underground è puntata su di loro e così persino la BBC oppure la celebre rivista inglese NME non possono fare a meno di parlarne. Non è una specie di miracolo? Se solo penso a quello che i Landberk, dai quali proviene il chitarrista Reine Fiske, hanno rappresentato per il Prog degli anni Novanta e al fatto che sicuramente non sono stati ricambiati con la stessa moneta, mi viene un senso di malinconia… ma si sa, le leggi del mercato sono spesso imprevedibili e va a finire che un gruppo di musica retrò, come i Dungen, che per di più canta in Svedese, riesca a far breccia, seppure a livello underground, sia ben chiaro. Ma alla fine non è neanche colpa dei Dungen se riescono ad avere questo “successo”: loro la Virgin la hanno immediatamente abbandonata per tornare ad una piccola etichetta indipendente, dichiarando che una major non poteva fare al caso loro che non suonano certamente successi pop. Va bene, non sarà pop dico io, ma è innegabile che la band di Mattias Gustavsson (basso) sia dotata di un appeal commerciale, intendendo con questo termine la loro potenzialità di farsi spazio nel mercato. Ma certe riflessioni lasciano in fondo il tempo che trovano e forse è meglio concentrarsi sulla musica, anche perché non vorrei darvi l’idea di una persona schizzinosa che appena fiuta l’aria del disco di successo (anche se qui, ribadiamolo, il successo è sempre un concetto molto relativo e limitato) bolla tutto come musica per le masse e passa oltre. Sarebbe questa un’ingiustizia gratuita verso un gruppo che tutto sommato produce musica gradevole e fruibile senza per questo rinunciare al proprio linguaggio e alla propria identità. “Skit i allt”, il titolo di questo nuovo lavoro, significa una cosa tipo, al diavolo tutti, come a voler ribadire che i Dungen fanno proprio come vogliono, indipendentemente da chicchessia. Un’espressione simile mi aveva fatto pensare, in un primo momento, ad un ritorno su sentieri musicali acidi, impervi ed irriverenti, ad una specie di schiaffo insomma, e invece scopro, già dalle prime note del pezzo di apertura, “Vara snabb”, che i Dungen si muovono a passi felpati su polverose e soffici coltri di velluto, confermando in un certo senso la “svolta” melodica e rilassante del precedente “4”. Questo è quello che mi sono divertita a definire un disco tattile, fatto cioè di tante sensazioni acustiche tenui e particolareggiate che mi fanno pensare a quando con i polpastrelli delle dita si cercano le piccole differenze sensoriali fra una superficie e l’altra. Si tratta di qualcosa che riesce a solleticare finemente i sensi, attraverso mille impercettibili particolari che stuzzicano l’orecchio senza riempirlo. La psichedelia è una specie di alone o di atmosfera in cui sono immerse canzoni poppish e dal disegno semplice, di cui finiscono col stimolare la nostra attenzione dei singoli particolari che possono essere il flauto delicato e le tastiere vintage del pezzo di apertura, le fruste che appena accarezzano i piatti, il piano freddo di “Min enda vän” o gli archi che, con poche note messe al punto giusto, riescono a riscaldare l’atmosfera. “Brallor” si contraddistingue dalle altre tracce per i contrappunti vocali e tenui di Anna Järvinen mentre la successiva “Soda” ci cattura con la sua soffice percussività e per poche linee di chitarra immerse in una colorata atmosfera vintage disegnata da tastiere lontane ed appena percettibili. In un pezzo come la title track, che riprende un po’ la spensieratezza di “Stadsvandringar” che sa di nostalgia di tempi passati ed irripetibili, è un singolo arpeggio metallico a focalizzare su di sé i nostri sensi, mentre le melodie cantabili scorrono agilmente, come in un sogno. In questo album molto breve (appena 34 minuti di durata), si sottrae un po’ alla regola generale dell’opera lo strumentale “Högdalstoppen” che è l’unico che conserva un approccio live, un certo gusto per la distorsione e per quella psichedelia fatta di visioni lisergiche che è in grado di stordire ed alterare la coscienza. Solo qui l’album prende davvero una piega estroversa e spontanea mentre per il resto tutto è misurato, pacato e gli aspetti più emozionali rimangono appena percettibili sullo sfondo di uno scenario ovattato ed edulcorato. Detto questo possiamo certamente concludere che “Skit i allt” è un album in decisa flessione rispetto alle precedenti produzioni ma nonostante questo si tratta sicuramente di qualcosa che si lascia ascoltare in maniera accattivante e che sicuramente sarà in grado di girare più e più volte nei CD player di chi ama profondamente questo tipo di sound e questo tipo di sensazioni sonore.
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