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Terzo album per il progetto ormai consolidato del chitarrista polacco Mirek Gil, autore di deliziose pagine neo-sinfoniche con i Collage negli anni ‘90 e in seguito transitato fugacemente nelle fila dei loro “figliocci” Satellite (con cui i Believe condividono il bassista Przemas Zawadzki). Più che dell’emanazione di un solista, sarebbe certamente più corretto parlare di gruppo vero e proprio, dato che i 4/5 della lineup originale del 2006 la ritroviamo intatta su questo album: il nuovo acquisto è il vocalist Karol Wróblewski, che si cimenta anche al flauto e alle tastiere. Le liriche – in lingua inglese - sono firmate ancora una volta da Robert Sieradzki, collaboratore di vecchia data della band.
Chi ha già familiarità con la musica dei Believe, sa che l’ingrediente segreto che insaporisce questa altrimenti quasi archetipica ricetta di progressive moderno “à la Porcupine Tree” (o art-rock come preferiscono loro stessi) è il violino di Satomi, ottimo complemento alle esternazioni melodiche della chitarra di Mirek, quest’ultima sempre riconoscibile con piacere e strumento dominatore delle partiture. Da non sottovalutare la sezione ritmica, soprattutto per l’enfasi che è stata posta in fase di mixaggio in particolare alla batteria di Vlodi Tafel, potente e in primo piano.
Cosa aggiunge di nuovo questa terza opera del sestetto ad un sound ormai collaudato? La voce di Karol è accettabile ma a mio avviso un po’ anonima e non riesce ad evitare qualche forzatura di interpretazione avventurandosi su tonalità alte a lui non troppo congeniali; detto questo, il flauto portato in dote potrebbe aggiungere varietà allo spettro sonoro del gruppo, se solo l’utilizzo dello strumento non fosse assai limitato; idem per le tastiere, virtualmente assenti in gran parte del disco. Come già detto, ci pensa fortunatamente la bravissima Satomi (musicista di estrazione classica di origine nipponica) a riempire gli spazi lasciati dalla pur generosa chitarra e in alcune occasioni conferisce un tocco “barocco” (si ascoltino “And all the roads”, la title-track e “AA” che la vede come coautrice) sicuramente piacevole e in contrasto con la modernità degli altri timbri sonori. Tra i momenti migliori dell’album, quasi tutti nell’ipotetico “lato A” del disco, citiamo “Tales from under the tree”, brano dall’andamento nervoso, caratterizzato da un raro interludio acustico con tanto di flauto; l’atmosfera malinconica di “Mother”, con la melodia dettata da Gil e reiterata dal violino; il tempo medio di “And all the roads”, il cui andamento soft può ricordare sia i Collage che gli inglesi Big Big Train; a chiusura dell’album segnaliamo invece l’insolito arrangiamento quasi cameristico di “Mine”, con il violoncello dell’ospite Paulina Druch e l’acustica “Silence”. Meno interessanti per il mio gusto brani più lineari come “This is life”, potenziale “singolo” dell’album in quanto a grado di orecchiabilità.
In generale, rispetto agli album precedenti, si può notare una prevalenza di brani dall’andamento moderato che rende il tutto un po’ troppo omogeneo, una presenza maggiore del violino, sempre protagonista nei frangenti più “drammatici” o romantici ed una qualità di registrazione ineccepibile (in fase di mastering il gruppo ha potuto usufruire dei servigi di una vecchia volpe come Andy Jackson, ingegnere del suono già con i Pink Floyd…). Un passo avanti? Forse, ma auspichiamo che il quarto passo introduca novità più sostanziose, per ora si… galleggia, sia pure egregiamente.
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