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Con una campagna di sostegno battente, arriva alle stampe il secondo lavoro degli italiani Not a Good Sign. Dopo l’ottimo esordio datato 2013 non era prevedibilmente semplice avere un seguito altrettanto valido, ma i ragazzi sono giovani (più o meno) e le idee, per fortuna, molte. La band, capitanata dal fenomenale duo Paolo “Ske” Botta alle tastiere e da Francesco Zago alle chitarre, duo che si è occupato anche della quasi totalità delle composizioni, è completata dal vocalist Alessio Calandriello, dal bassista Alessandro Cassani e dal batterista Martino Malacrida. Tutti sono ben famosi nell’ambito progressive anche per altre formazioni, portandoci a pensare questo soggetto come una sorta di supergruppo, ma il “super”, che potrebbe anche non piacere agli stessi, è inteso per valore e non certo per fama e qui vogliamo ricordarci, ad esempio, di Yugen e La Coscienza di Zeno. Per scelta o forse per semplice casualità compositiva, la band non punta su brani lunghi e dilatati, ma – come già accadde con il disco di esordio - su brani più raccolti con durate che raramente arrivano ai 6-7 minuti. Questo è determinato certamente da una grande quantità di idee, ma mi piace sottolineare anche quanto nel progressive sia spesso più difficile rimanere all’interno di tempi più contenuti, piuttosto che “rilassarsi” in spazi dilatati e in contenitori certamente più agevoli da riempire. Eccoci quindi ai dieci brani che compongono il lavoro, tutti molto belli e con particolari che richiederebbero trattazioni singole. Le prime cose a spiccare sono la forte omogeneità, la coerenza compositiva e, non certo ultime, la qualità esecutiva e di scrittura. Si staccano e in maniera piuttosto decisa, solo due brani: “Aru hi no yoru deshita” pacato strumentale dal sapore cameristico nel quale, su una mirabile tessitura di pianoforte (qui c’è ospite Maurizio Fasoli), vanno ad inserirsi le note dell’oboe di Eleonora Grampa e la conclusiva e ancora strumentale “Farewell” nella quale, in poco meno di due minuti, si sviluppa un tema pianistico in bilico tra classicismi “rubacchiati” da “Il mattino” tratto dalla suite del Peer Gynt di Edvard Grieg e melodiose note portate ancora dall’oboe. Il resto, cioè quasi tutto, vive invece di momenti ora aggressivi, ora più melodiosi, ma sempre dotati di ricchezza e impatto deciso e spesso pungente. In questo è da sottolineare la prova magistrale di Calandriello la cui duttilità e professionalità saltano fuori in ogni brano cantato ed esplodono nella notevole “I feel like snowing” con una serie di vocalizzi che fanno impazzire di invidia quelli che, come me, hanno tentato di cimentarsi nel canto. Ma, ovviamente, la sua prova non è limitata a questo, c’è espressività, c’è potenza e c’è anche raffinatezza. Tanto che ascoltando il disco in veste di sottofondo ad altre attività (una prova che consiglio di fare sempre) si rileva il suono complessivo come un qualcosa di professionale e nel prog degli ultimi anni è cosa piuttosto rara. Favorito anche dal mastering di qualità di Udi Koomran, il suono è sempre pulito, ordinato, ogni strumento è perfettamente leggibile anche nei momenti di massima ricchezza sonora e in questo senso vale la pena segnalare la poderosa e crimsoniana “Pleasure of drowning”. C’è anche una forte propensione per la melodia, raffinata e ricercata e ne troviamo ottimi esempi nella splendida e forse miglior brano del disco,“Going Down” e nella già citata “I feel like snowing”. Non manca anche qualche episodio più duro ed aggressivo in “Not now” e verso il finale di “Open window”, poi un gran uso di tempi dispari e poliritmie che conferiscono un’ampia dinamicità e varietà di forme in continua progressione. Io mi fermerei qui. La mia parte è limitata a questo consiglio di acquisto, deciso e certo come poche altre uscite negli ultimi periodi. La vostra parte sarà quella, spero, di apprezzare questo lavoro quanto me.
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