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Terzo album per il progetto DBA, nato nel 2012 dalla proficua e prolifica “associazione” tra la nostra vecchia conoscenza Geoff Downes (da ormai sette anni nuovamente tastierista in forza agli Yes, ruolo oramai consolidato) e il talentuoso produttore, songwriter, polistrumentista e vocalist Chris Braide, che a dire il vero non ha mai frequentato ambienti legati al progressive rock, ma può arrogarsi il titolo di forza creativa occulta dietro numerosi successi di artisti pop di fama internazionale (l’apprezzata cantautrice australiana Sia, ad esempio, è una delle sue ultime scoperte). Eppure, la copertina di questo terzo capitolo, che segue due episodi di pop di classe ma lontani anni luce da qualsivoglia intento concettuale, pare voler affermare un’inedita vicinanza al prog (probabilmente passione segreta di Braide), grazie all’inconfondibile dipinto di Roger Dean, che da sempre presta i suoi pennelli anche agli Asia di Downes. A ben vedere, altri particolari sono interpretabili in tal senso; la lista degli ospiti, ad esempio, annovera David Longdon (Big Big Train), ma anche personaggi gravitanti attorno all’universo dell’art rock, come Tim Bowness (No-Man) o Andy Partridge (XTC), oltre a nomi più legati alla new-wave come Marc Almond (Soft Cell) e Kate Pierson (B-52’s). Anche la durata dei brani può suggerire un tentativo di scrittura più complessa, a partire dai 18 minuti della title-track. Ci chiediamo dunque: la Downes Braide Association ha virato decisamente e inaspettatamente verso il rock sinfonico puro? Certo che no, ma allo stesso tempo, non c’è dubbio che questo “Skyscraper souls” (il titolo cita una commedia romantica anni ’30 con Maureen O’Sullivan tra i protagonisti) sia il loro album più elaborato, più coraggioso, più appetibile da chi vanta gusti musicali più raffinati e, in definitiva, il loro migliore. Addirittura si potrebbe definire esempio perfetto di pop rock melodico, suonato, arrangiato e registrato impeccabilmente, con brani che rispecchiano un’invidiabile comunanza di intenti tra i due cervelli che li hanno partoriti, entrambi alle prese con pianoforte e sintetizzatori, con Braide a ricoprire con sicurezza e talento anche il ruolo di lead vocalist. Una novità rispetto agli album precedenti è anche l’impiego di un’intera band a supporto del duo, incluso finalmente un batterista in carne ed ossa (Ash Soan) e di un narratore che con i suoi interventi funge da collante e da raccordo tra i diversi brani. E allora, ecco che la lunga “Skyscraper souls” si rivela non propriamente una suite, ma il tentativo riuscito di espandere e sviluppare attorno a un paio di temi ricorrenti una piccola “sinfonia” power-pop, guidata dal piano e con gradevoli interventi solisti del chitarrista Dave Colquhoun, con esiti che non deviano poi molto da una versione più cool e rarefatta di analoghi esperimenti compiuti con gli Yes di “Drama” e “Fly from here”. A dire il vero, gli ammiccamenti verso gli anni ’80 sono in questi solchi meno evidenti che in passato; il tono predominante è quello della ballata, che sia pianistica come “Glacier girl”, atmosferica e dall’incedere vagamente floydiano come “Darker times” o più folk come la deliziosa “Tomorrow” impreziosita dalle armonie vocali e dal flauto di David Longdon. “Angel on your shoulder” e “Lighthouse” sono invece brani radiofonici in stile Asia, con tanto di vocoder e un piano elettrico in stile Supertramp. Non mancano episodi accostabili ad uno smooth jazz notturno, come “Skin deep”, caratterizzata dalla tromba di Matt Bourne Jones e soprattutto dalla voce inconfondibile di Marc Almond. Ricollegandomi alle osservazioni iniziali, posso affermare che l’ascoltatore che si avvicinerà al disco per via dei suoni rievocati dallo stile della copertina, potrebbe essere inizialmente contrariato, ma in definitiva sorpreso in modo positivo da una produzione che restituisce dignità e spessore ad un filone legato ad un passato in cui l’attributo “pop” non era un marchio d’infamia, bensì utilizzato solo per indicare la dicotomia con la musica “colta”.
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