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Sarà davvero facile distruggere l’album degli Yes del 2014. Sarà davvero facile lanciarsi in affermazioni caustiche del tipo “questi non sono gli Yes”. Sarà davvero facile criticare l’apporto di Geoff Downes. Il difficile è mantenere un minimo di obiettività nel giudicare “Heaven & Earth”. Il troppo amore verso la storia del celebre gruppo inglese e verso il cantante già estromesso da qualche anno può sicuramente accecare e spingere a critiche ingiustificate, come era accaduto anche per il precedente e validissimo “Fly from here”. Ma col nuovo parto, bisogna ammetterlo, se si evitano gli estremismi, le critiche saranno per lo più giustificate. Perché in poco più di cinquanta minuti gli Yes puntano su canzoni “allungate”, per così dire, cercano una immediatezza pop lontana, però, dalla qualità di “90125”, prestando attenzione maggiormente alle melodie (troppo spesso banali e zuccherose), piuttosto che ai tecnicismi che da sempre li contraddistinguono. E dire che l’incipit non è neanche male. Si intitola “Believe again”, dura circa otto minuti e parte con un incedere vagamente epico, melodie vocali in pieno stile Yes, uno Steve Howe che sprigiona la solita classe e, pur denotando una certa leggerezza ben lontana da cavalcate ricche di virtuosismi, si avverte quel feeling che riesce a rendere comunque gradevole la composizione. Il problema è che già mentre si ascolta questa traccia ci si aspetta un “decollo” che non avviene. Così, mentre il disco va avanti, si sogna di affrontare da un momento all’altro il pezzo da novanta, ma più passano i minuti più le speranze svaniscono. Ogni tanto lo spunto piacevole arriva, ma in mezzo si va incontro alle varie “The game”, “Step beyond”, “Light of the ages”, “It was all we knew”, francamente noiose, in alcuni casi prolisse e che lasciano completamente all’asciutto di emozioni. In tutto questo una “In a world of our own” finisce col rimanere nell’anonimato, mentre le cartucce migliori, grazie alle quali ascoltiamo qualcosa di veramente buono che risolleva un po’ le sorti dell’album, sono sparate con “To ascend” e soprattutto con la conclusiva “Subway walls”, che recupera certe caratteristiche sinfoniche della musica degli Yes e con interventi da maestro di Howe. Le note positive sono sicuramente le prestazioni del nuovo cantante Jon Davison (altro clone di Anderson che ben svolge il suo compito) e del sempreverde Howe e segnaliamo anche la solita bella copertina di Roger Dean. Tra quelle negative da rimarcare i brutti timbri di tastiere scelti da Geoff Downes e questa voglia di “semplificare” lo yessound che cozza non solo con il passato, ma anche con la storia recente del gruppo, capace di sfornare nei precedenti album in studio perle del calibro di “Homeworld”, “In the presence of” e “Fly from here”, giusto per citare le migliori. In “Heaven and Earth” non c’è nulla di lontanamente paragonabile alle composizioni appena citate. Come accennato, tuttavia, non è giusto parlare di disco orribile e sono diverse le cose da salvare, al punto che dovendo dare un giudizio sintetico (e magari magnanimo) su quest’album, si può anche parlare di sufficienza striminzita. Ma per un gruppo del calibro degli Yes equivale ad una brutta bocciatura. E’ un lavoro leggero, a tratti anche troppo, nonostante dei guizzi di classe qua e là, ma che scorre via stancamente ed è facile distrarsi e stancarsi durante l’ascolto. In una classifica ideale degli album degli Yes non può che collocarsi tra le posizioni di fondo.
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