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E chi se l’aspettava? Ricapitolando… Gli Yes fanno fuori Jon Anderson e lo rimpiazzano con un semisconosciuto clone proveniente da una cover band. Poi riprendono Geoff Downes che non ha certo brillato nel mondo del prog negli ultimi anni. Infine, preparano un nuovo disco partendo da quello che si vociferava fosse uno scarto delle sessions di “Drama” (e ricordo ai più distratti che stiamo parlando di oltre trenta anni fa). Le premesse, insomma, destavano ben più di una preoccupazione per gli aficionados della band. Poi arriva “Fly from here” nei negozi. Risultato finale: un disco di classico yessound per un rock sinfonico coi controfiocchi! L’apertura è subito col botto, grazie a sei tracce che insieme formano la bellissima suite che dà il titolo all’album e che è proprio la composizione nata dai ripescaggi cui abbiamo fatto cenno. Nel giro di pochi secondi parte il tema di base, che ci catapulta immediatamente in quella miriade di suoni a cui ci hanno abituati i migliori Yes: cambi di tempo, melodie ariose e intriganti, intrecci strumentali funambolici, spiragli acustici e dinamiche splendide che rendono l’ascolto di una piacevolezza estrema. Anche in anni recenti la band ci aveva deliziato con composizioni pregevolissime, come, ad esempio, “In the presence of” su “Magnification”, “Homeworld” su “The ladder”, o anche alcuni inediti sui due “Keys to ascension” e con questa epica suite i livelli sono gli stessi, se non superiori. Un Howe in splendida forma fa un po’ la star, esibendosi in solos e costruzioni chitarristiche di pregevolissima fattura; ma encomiabile è anche il lavoro di Downes, che non punta sulla tecnica, sulla maestosità, sul suono ad effetto, regalando invece rifiniture raffinate, riff trascinanti e spunti melodici di indubbio coinvolgimento. Le altre cinque tracce presenti non eguagliano la qualità della suite, ma meritano comunque attenzione, dalla gioiosa “The man you always wanted me to be” all’evocativa “Life on a film set”, dal refrain efficace contornato da ottimi dialoghi elettroacustici (alternando, così, ballad e rock sinfonico), dall’episodio solista con l’acustica di Howe intitolato “Solitaire” (che non riporterà certo ai fasti di “The clap, ma che pure fa bella figura) ai sette minuti conclusivi di “Into the storm”, un po’ di maniera, ma classicamente “yessiani”, passando per l’estratto di “Hour of need”, che si trova in versione completa e, ovviamente, più ricca e piacevole, soltanto sul cd uscito in esclusiva per il mercato giapponese (qui ci dobbiamo accontentare solo dell’estratto acustico, perdendoci gustosi intrecci chitarra-tastiere). E giusto per non farsi mancare niente, per l’ormai odiosa consuetudine a pubblicare gli album in più formati, ricordiamo anche che è disponibile una versione con allegato un bonus DVD, “The making of Fly from here”, il cui titolo dice già tutto e in cui i musicisti raccontano l’evoluzione del lavoro. Le critiche, inevitabili, riguardanti la mancanza di “novità” (toh, che strano! In qualsiasi ambito della musica moderna, rock e progressive compresi, questo fattore è sempre presente, vero?), la presenza di qualche motivetto orecchiabile, il recupero di vecchio materiale a sottolineare una mancanza di idee, le trovo deboli e superficiali. E’ vero, nulla di nuovo ed il ricorso al mestiere si vede chiaramente. Ma che bell’ascolto! Che classe! Che intuizioni! Gli Yes risollevano la testa quando era difficile aspettarselo, e lo fanno in maniera forte e decisa grazie a “Fly from here”, di cui possono andare pienamente fieri e che dimostra come anche i vecchi dinosauri siano ancora in grado di incantare, senza alcuna pretesa di essere innovativi e puntando su quello che meglio sanno fare.
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