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YOGI LANG A way out of here Gentle Art Of Music 2019 GER

A nove anni dal debutto solista “No decoder”, un periodo di tempo durante il quale l’attività della sua band è stata più fervida che mai, torna a pubblicare un lavoro a suo nome Yogi Lang, vocalist, tastierista e fondatore degli RPWL, di cui costituisce il leader de facto assieme al chitarrista Kalle Wallner. Chi ha avuto modo di apprezzare l’album citato, o conosce anche superficialmente la proposta della band di provenienza, sa che i numi titolari di Yogi sono i Pink Floyd (tanto da pubblicare addirittura un paio di album “a tema”) e conosce l’ammirazione sfrenata dell’artista per David Gilmour; troviamo addirittura il bassista Guy Pratt come coautore in uno dei brani. Allo stesso tempo, sarebbe ingiusto ignorare una certa predisposizione verso arrangiamenti moderni e un’apertura verso generi contigui (come un certo art-rock britannico contemporaneo), a stemperare i connotati vintage se non del songwriting, almeno della veste in cui le canzoni sono presentate. La coesistenza di queste due anime, rende sin troppo facili i paragoni con le coordinate stilistiche di Porcupine Tree/Steven Wilson o band come i norvegesi Airbag e Gazpacho, che farò solo per inquadrare meglio la proposta nella miriade di produzioni odierne.
Per lungo tempo, la mia vita è stata dominata dalla certezza che ci fosse una soluzione a qualsiasi problema, e che si dovesse solo lottare per trovarla… dove c’è una via d’entrata, dev’esserci necessariamente anche una via d’uscita”, spiega Lang per illustrare le tematiche delle sue personali liriche, incentrate sugli ostacoli, le paure e le speranze della vita reale.
I nove brani qui presentati hanno una durata media, con l’eccezione dell’apertura “Move on”, molto sinfonica e che sfiora il limite dei dieci minuti, e si presentano arrangiati con gusto e grande attenzione al dettaglio (Lang suona tutte le tastiere, anche analogiche); oltreal compagno di viaggio Wallner, che regala la sua chitarra solista in due pezzi, e alla normale configurazione di una rock band, troviamo due coriste a conferire maggiore ariosità nei frangenti appropriati, nonché la pedal steel guitar e il mandolino di Klaus Reichart.
Avendo già accennato al primo brano, che si riallaccia idealmente all’album precedente di Lang, la title-track è di fattura molto differente, un pop-rock in stile più Gabriel che Floyd, con la chitarra insolitamente “sporca” di Torsten Weber (anche lui nel “giro” RPWL), anche se le coriste accennano ad un familiare “you’d better run!”. Si apre una parentesi pastorale con la delicata “Shine on me” (che troverebbe una collocazione perfetta su “On an island”) e l’intimistica “Don’t confuse life with a thought”, originale sia nel titolo che nel refrain, tanto minimalista quanto azzeccato. Con “Love is all around” si torna a sonorità più dure e chitarre vagamente infuse di blues, stemperate però in aperture corali e atmosferiche; purché non disprezzabili, trovo personalmente queste parentesi mainstream i momenti meno interessanti del disco. La chitarra acustica fa capolino su “Freedom of the day”, ballata folk-rock sufficientemente ispirata e ben posizionata nella tracklist per alleggerire i toni, funzione svolta egregiamente anche dalla strumentale ed ariosa “Early morning light”, di cui approfitto per menzionare l’affiatatae misurata sezione ritmica composta da Yvo Fischer (basso) e Stephan Treutter (batteria). La pedal steel è l’ingrediente segreto di “The sound of the ocean”, che rimanda ai brani più meditabondi di “The division bell”: a questo punto mi sorge il dubbio che i pregi e i difetti di un album del genere siano entrambi attribuibili alle suggestioni di già sentito che evoca, che possiamo considerare ambivalentemente come confortevoli o sfacciate. Ma mentre meditiamo sull’eterno dilemma dell’emulazione (legittima cifra stilistica o mancanza di personalità?) l’album si chiude solennemente con le coriste alla ribalta e l’elettrica di Wallner a coronare una ballata (“I’ll be there for you”) dominata dal piano e da un’intensa interpretazione vocale di Lang. In definitiva, un lavoro a cui i fan degli RPWL possono accostarsi ad occhi chiusi e in cui ritroveranno le suggestioni della band madre più qualche interessante variazione; a chi invece avesse preconcetti su progetti troppo derivativi, posso assicurare che c’è abbastanza carne al fuoco e personalità da poter sorvolare su alcuni “tributi” troppo espliciti.



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Mauro Ranchicchio

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