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Per una band che non si è mai davvero distinta per l’oscurità o la crudezza della sua proposta, incentrare un album tematico attorno ad alcuni dei più orripilanti e inumani dei crimini documentati nella storia dell’ultimo secolo parrebbe una mossa azzardata. Sì, abbiamo avuto anche dei precedenti al riguardo (anche illustri: mi viene in mente l’agghiacciante “Raider II” di Steven Wilson o l’album “The road of bones” degli IQ, con il brano di apertura e la title-track a narrare le vicende di un serial killer e di un soggetto… “ematofago”), ma qui si tratta di dedicare un intero disco al “morboso, al perverso, al male insito nel bene, agli abissi dello spettro dei comportamenti umani in tutta la sua imprevedibile diversità, che a volte si rivela curiosamente razionale, se si ha il coraggio di sondarlo”. Per quanto riguarda la formazione della band bavarese, sempre capeggiata dal vocalist e tastierista Yogi Lang e dal chitarrista Kalle Wallner, registriamo la defezione del secondo tastierista Makus Jehle e l’ingresso del bassista Markus Grützner, con Marc Turiaux confermato alla batteria. Inseriamo il CD nel lettore preparandoci a ricevere un pugno allo stomaco, ma già il brano di apertura, l’articolata “Victim of desire” ci rassicura sul fatto che passeremo tre quarti d’ora accompagnati dalle piacevoli sonorità floydiane nel consolidato stile RPWL: l’analisi psicologica della mente di un serial killer è musicalmente risolta in un modo equilibrato, dando vita ad un brano con i chiaroscuri e le alternanze di momenti hard e melodici che potremmo facilmente trovare in un disco degli Arena. Nulla di estremo neanche nella successiva, semi-acustica “Red rose”, quasi romantica: non avrei mai sospettato che le liriche trattassero la storia di Carl Tanzler, un sedicente medico che negli anni ’30 del Novecento trafugò e imbalsamò un cadavere con cui in seguito convisse per sette lunghi anni. Un piano tintinnante introduce “A cold Spring day in 22”, altra ballata ma stavolta più su coordinate indie-pop, molto rassicurante se non fosse che quel giorno primaverile del 1922 si riferisce a quanto passato alla cronaca come “strage di Hinterkaifeck”, un caso irrisolto che coinvolse sei abitanti di una fattoria bavarese barbaramente trucidati con un piccone. La violenza domestica è il tema affrontato in “Life in a cage”: un synth pulsante e l’uso del vocoder sulla voce di Lang conferiscono un tono freddo e vagamente inquietante a questo episodio dall’andamento stentato ma ripetitivo, che ben si addice stavolta ai versi declamati più che cantati; l’assolo gilmouriano di Wallner dimostra gusto e misura. Basso e synth introducono ad effetto la lunga “King of the World”, tendenzialmente riflessiva, che può rimandare ad altre mini-suite del loro repertorio o ancora agli Arena o a qualcosa dei Galahad: gli avvicendamenti tra chitarra e synth sono figli legittimi del new-prog inglese degli ’80 e ’90, così come le sottolineature di Mellotron, ma l’ispirazione è indubbia e l’interpretazione di Lang piuttosto coinvolgente, malgrado si resti ad attendere un climax che non giunge mai realmente. La conclusiva “Another life beyond control”, con basso e chitarre insolitamente distorti (con l’effetto “big muff”) funge un po’ da ricapitolazione, pur non mancando di menzionare l’ennesima vicenda torbida, quella di Karl Denke, noto come “cannibale di Münsterberg”. Nella cartella stampa, Lang e Wallner affermano di esser stati sempre affascinati – in quanto artisti – dalle zone d’ombra personali e sociali, ponendo la fatidica questione di come affrontare il “male” stesso: “chi ci rende ciò che siamo? È forse questione di genetica, di circostanze sociali, di infanzia, di scherzi del destino, pressioni od offese?”. Non avrete la risposta a tutto ciò ascoltando “Crime scene”, ma trascorrerete del tempo accompagnati da un lavoro ben fatto, che accogliamo con favore a quattro anni di distanza dal precedente (tematicamente assai distante) “Tales from outer space”.
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