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I paleontologi dell’autorevole CRI (Cuneiform Research Institute) ritengono che questo ritrovamento sia di fondamentale importanza.
Quando, a partire dagli anni ’80, gli studiosi si imbatterono, forse non troppo casualmente, negli storici reperti, iniziarono a disseppellire le ossa di questo grande ed importante dinosauro e via, via i ritrovamenti si sono infittiti in maniera parossistica, fino ai giorni nostri in cui lo scheletro parrebbe completato.
La datazione al Carbonio 14 ha definito la possibile età dei reperti intorno all’era ‘67/’68 del Progressivo Inferiore, l’era in cui il Machinosaurus Mollis muoveva i primi e fondamentali passi sui palchi di questo nuovo mondo, dimostrando grandi capacità di improvvisazione.
Le ossa mancanti e qui ritrovate, vanno quindi a completare una parte sostanziale della struttura primordiale dell’animale e, seppur il loro stato di conservazione sia piuttosto discutibile, vedere lo scheletro completarsi sotto i nostri occhi è una bella soddisfazione.
Pare ora che l’Istituto americano, sia alla ricerca delle uova e dei primi embrioni dell’essere, così da chiarire una volta per tutte quale fu il suo metodo (ri)produttivo. Aspettiamo, tanto che si deve fare, nel frattempo.
Mettendo la paleontologia da parte occorre dire che siamo di fronte ad un CD live la cui formazione stringata a Wyatt, Ratledge e Ayers propone il primissimo repertorio del gruppo (e dei componenti). Il lavoro è stato registrato per la maggior parte (8 brani su 11) al Covent Garden di Londra nel 1967, due brani al Roundhouse, Chalk Farm, sempre a Londra nel maggio 1968 e l’ultimo brano in una location sconosciuta nell’autunno del 1967.
Per l’esecuzione dei brani il gruppo si lascia andare ad incredibili improvvisazioni: dilatano, spezzano, stravolgono e ricompongono gli scarni canovacci, per un esercizio surreale in bilico tra la voce profonda di Ayers, quella acuta e fiabesca di Wyatt e le folli distorsioni tastieristiche di Ratledge. “Clarence In Wonderland”, We Did It Again”, “A Certain Kind” “Why Are We Sleeping?”, ne sono esempio lampante. Ma ancora più folli, e al contempo lucide, appaiono “Hope For Happiness” protratta per oltre 13 minuti e “I Should’ve Known” per quasi dieci minuti, dove gli spiriti progressisti e sciamanici dei tre vagano liberi tra spartiti ipotizzati solo nelle loro menti e dove prevale ancora l’anima blues, rispetto a una coscienza canterburiana ancora in embrione.
Disco chiaramente indirizzato ai fans irriducibili ma, tornando alla metafora iniziale, queste ossa hanno un che di indispensabile della ricostruzione storica del gruppo.
Molto carino il booklet con foto inedite dei tre che si aggirano, come gnomi delle favole, tra fontane e aiuole di una parco vittoriano.
La Cuneiform tiene a sottolineare che la qualità dei nastri originali, vecchi di quasi quarant’anni e registrati con apparecchiature semiprofessionali non è ottima, pleonastico.
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