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SOFT MACHINE Drop Moonjune 2008 UK

Ogni volta è la stessa cosa. Ogni volta dico questa è l’ultima, ma ogni volta c’è sempre qualcosa che mi fa cambiare idea. Penso: ”Perché questo accanimento nel trovare in fondo ai cassetti registrazioni, rimasugli, nastri ecc. dei Soft Machine?” La risposta poi viene da sé e si basa essenzialmente sulla grandezza e su quanto di fondamentale abbia fatto questa band nell’arco della carriera artistica. Per l’occasione siamo all’ascolto di un documento rarissimo preso da uno spaccato temporale unico nella vita dei Soft Machine. Era il 1971, Robert Wyatt era già fuori dal gruppo, indirizzato alla prosecuzione del discorso iniziale e portato splendidamente avanti con i Matching Mole, mentre John Marshall era in attesa di liberarsi dagli impegni per entrare nel gruppo in pianta stabile. Per pochi mesi dietro ai tamburi del gruppo sedette Phil Howard, artista australiano, che collaborò anche all’incisione di parti di “Fifth”. Howard portò un clima di assoluta libertà e spontaneità espressiva all’interno della band, tale da segnare indelebilmente la musica prodotta in quella manciata di mesi. L’incarico da batterista ad interim gli si addisse a tal punto che riuscì a strappare al trio rimasto, Hopper, Ratledge e Dean, quanto di maggiormente free potesse loro frullare per la mente. Menti già - ovviamente - predisposte per certi schemi di espressività totale. Le indubbie e portentose capacità tecniche di Howard e la padronanza dello strumento consentirono un passaggio che non può e non deve essere necessariamente inteso come transitorio, ma un momento fondamentale per lo sviluppo, l’evoluzione e la maturità sonora del gruppo. Certamente la forte personalità del trio orfano di Wyatt (sia come gruppo, sia come singoli componenti), avrebbe potuto scontrarsi con altri livelli di piacere, crogiolandosi intorno a narcisismi personali. sarebbe stato facile, prendere uno sconosciuto e magari semplice esecutore jazz per riproporre i propri temi ed essere sicuri di uscirne in protagonismo. Oppure sfruttare temporaneamente qualche amico del giro canterburyano come Pyle o Travis o Tompkins, giusto per il tour e in attesa di Marshall. La scelta invece di un tale portento carismatico generò quel di cui si dice.
La scaletta dei brani abbraccia il periodo temporale immediatamente precedente al disco e l’orientamento jazz è più evidente, rispetto allo stampo anarcoide, psichedelico e ironico del Canterbury sound iniziale. Insomma “Fifth” risultò dominato dallo spirito del jazz londinese e seppur imparentato con la follia degli inizi si stacco decisamente dagli ebbri temi Wyattiani, meno istinto e più ragione, più ortodossia e serietà. Se poi, nel periodo, ortodossia e serietà furono equivalenti di temi free e totali è mera coincidenza e all’ascolto di oggi tutto può sembrare, erroneamente, familiare.
I brani, si diceva. Due gioielli di “Third”: una “Slightly All The Time” scomposta pure nella sua destrutturazione originale, riconoscibile per le note di Ratledge, ma fortemente caratterizzata dalla mancanza di disciplina del live. poi “Out-Bloody-Rageous” e ancora qualche sequenza di organo a ricordarci che qualcosa con quell’aria era stata incisa. Il resto dei brani sono “Fifth” o giù di lì, e sono storia da raccontare. Quella storia di insubordinazione lessicale e di fiammeggiante spontaneità che durò il tempo di dire: “Marshall”. Quella storia che rappresentò un periodo di fervore artistico e di scrittura-nonscrittura, sempre in lotta tra le forme improvvisate, così congeniali a Dean e dal nuovo contraltare ritmico Howard e quello più rigido della forma scritta cercata da Ratledge e Hopper. Dal tappeto si rialzò prima Dean, lasciando i Soft Machine e per generare il progetto Just Us, proprio con Howard e cedere la vecchia band alle maggiori schematizzazioni di “Six” e opere successive.
Ogni volta è la stessa cosa e anche questa volta devo dare ragione alla Moonjune: il valore di questo lavoro è altissimo. Forse può risultare faticoso per chi non ha la masticazione adatta al genere, ma lo ritengo assolutamente imperdibile per gli appassionati, terribilmente interessante per i cultori del jazz sull’orlo del precipizio.

 

Roberto Vanali

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