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L’attività intrapresa deve continuare indefessa. Questo sembra l’imperativo al quale soggiogano i Soft Machine Legacy che, nonostante le illustri e note mancanze, proseguono sia l’attività live, sia le uscite discografiche. Qui siamo ad ascoltare il risultato del tour che ha seguito la dipartita di Hugh Hopper, esattamente nelle date di ottobre 2009 in Austria e Germania. Oltre ai due membri più “storici” John Etheridge alla chitarra e John Marshall alla batteria, troviamo il sassofonista, flautista Theo Travis, entrato dopo la morte di Elton Dean nel 2006 e il bassista Roy Babbington, ripescato dalla vecchia formazione dei Soft Machine, risalente al periodo 1973 – 1976, quindi, eccezion fatta per Travis, la formazione attuale è molto simile a quella del disco “Softs” con tre membri su quattro. Il materiale raccolto spazia, come sempre, tra brani dell’epoca storica e brani di più recente ideazione e tutti hanno arrangiamenti tali da poter essere ben accostati. Questo significa che le strutture più tipicamente sperimentali dell’epoca, risultano qui un po’ “addolcite”. In effetti le sole tracce che vanno a pescare materiale delle prime stagioni sono "Gesolreut", scritta da Ratledge e finita su “Six” e un frammento, inserito per doveroso tributo Hopper, della storica “Facelift”, presente su “Third” della quale è stato salvaguardato l’aspetto ritmico. Di conseguenza questo “Live Adventure” ha riferimento nel periodo più recente. Risulta quindi piuttosto omogeneo il lavoro, indirizzato verso un jazz rock dai tratti fusion, dal quale si discosta e si eleva l’opener “Has Riff II”, che pur partendo da materiale scritto sempre dal vecchio Ratledge, è dotata di un arrangiamento particolarmente sperimentale, che lo fa avvicinare a certe cose kraut space, in un ribaltamento sonoro estremamente serioso e puntuale. Impressionante la struttura polirtmica di "Grapehound" che si arrotola su uno scomposto riff di Etheridge che oltre a scriverla se ne riserva una bella fetta per un assolto sincopato e ricco, in piena memoria seventies. Nelle dilatazioni temporali c’è spazio anche per un Travis fantasioso e scapigliato, perfettamente a suo agio sulle formidabili “complicazioni” di Marshall, l’uomo veramente insostituibile per tecnica e personalità. Tra ricordi di Jenkins, con il ripescaggio del voluminoso quanto rilassato 11/8 di “The Nodder” e di una ben più dilatata e sommessa “Song of Aeolus”, mannaggia quasi cameliana (ebbene sì, un altro ribaltamento sonoro), passando per gli eleganti quanto contorti metodi jazz di “The Relegation Of Pluto / Transit” o per il graffiante groove di “In The Back Room” che porta il sound più verso lidi Mahavishnu piuttosto che canterburyani, si arriva alla fine con l’unico pezzo interamente firmato da Travis. Pur parlando di radici del genere, di basi solidissime e classe cementificata fin dalle fondamenta, non possiamo fermarci qui e dobbiamo ammettere che abbiamo di fronte un intero albero, così ben cresciuto e rigoglioso, dalle ramificazioni innumerevoli e che ognuna ha saputo darci frutti dolci e succosi, come pochi altri. Altro centro e di più cosa si può dire?
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