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Registrato in Italia da Beppe Crovella all’Electromantic Synergy Studio nell’estate del 2012, “Burden of proof”, nuova prova per i Soft Machine targati “Legacy”, esce nel 2013 e spinge indietro verso i fasti migliori della scuola di Canterbury come non era mai successo prima. Se, infatti, la band aveva puntato finora su un jazz-rock di grande classe, suonato meravigliosamente, ma anche un po’ di maniera, in questa occasione sembra osare un po’ di più e non mostrare timore ad esibire un sound che richiama certi momenti del passato glorioso. Dopo la morte di Hugh Hopper, la formazione si è assestata con l’inserimento di Roy Babbington al basso, al fianco di John Marshall alla batteria, di Theo Travis al sax tenore, al flauto e al piano Fender Rhodes e di John Etheridge alla chitarra elettrica. Si comincia con la title-track, che dopo un’introduzione caratterizzata da piano elettrico minimalista e ambient, prorompe in un jazz-rock progressivo caldo e fascinoso, col sax e la chitarra elettrica pronti ad alternarsi alla guida e a indirizzare le sonorità verso i sentieri battuti negli anni ’70. Ed è proprio in questa direzione che si muove principalmente la band in “Burden of proof”, che è senza dubbio il disco sfornato dai Legacy più vicino a quelli dei seventies post “Third”. Brani come “Fallout” (imperlata anche di liquidità psichedeliche), “Going somewhere canorous?”, la spettacolare “Black and crimson”, “Pump room” e la misteriosa e conclusiva “They landed on a hill” sono lì a dimostrarlo. E come se non bastasse c’è anche una nuova versione di “Kings and queens”, sentito omaggio a Hugh Hopper, autore della composizione ripescata da “Fourth” e rivista e corretta per l’occasione. Ma non è solo nostalgia di un vecchio sound. Qui si parla di una prova assolutamente maiuscola per dei musicisti pronti a rimettersi in gioco, a rischiare di nuovo, a ripresentare forme libere e capacità di improvvisazione, a confrontarsi con un passato pesantissimo senza cadere nell’autocelebrazione. Ascoltate attentamente il lavoro dei quattro, sia individuale e sia come viene fuori d’insieme: dal drumming di Marshall che abbina potenza e classe, alla fluidità della chitarra di Etheridge, con i fiati di Travis che viaggiano in ogni dove e con il basso di Babbington sempre pronto a fare da collante. I musicisti si trovano alla grande, sono affiatati e hanno voglia di divagazioni blueseggianti in “Pie chart”, con l’elettrica di Etheridge sempre in bella evidenza e ovviamente supportata alla perfezione dal sax. Non mancano, inoltre, dei momenti più free e un po’ caotici con “Voyage beyond seven”, “JSP”, “The brief” e “Green cubes”, nonché il minimalismo e l’atmosfera intimista con “Kitto”. Si arricchisce ulteriormente, così, il capitolo “Canterbury” del progressive rock, per merito dei Soft Machine Legacy, che con “Burden of proof” realizzano un album bellissimo, sicuramente il migliore della loro saga e che fanno rivivere nel ventunesimo secolo l’epopea della Macchina Morbida. Siete avvisati!
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