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SOFT MACHINE NDR jazz workshop Cuneiform Records 2010 UK

Non ci vuole molto a capire che la lunga e contorta ricerca di materiale di repertorio di questa grandissima band non si calmerà. Ad ogni nuova uscita sembra dover seguire il classico commento: “E adesso basta!”, ma ecco che invece ne segue uno decisamente più positivo e di gratitudine per aver tirato fuori da quel cassetto, che sembra senza fondo, un’altra chicca e un altro documento indispensabile per ricostruire il percorso musicale dei Soft Machine.
Questa volta siamo al cospetto di un sontuoso episodio live, riferito al tour del 1973, promozionale al disco “Six”.
Vediamo di inquadrare storicamente l’evento. Solo pochi mesi prima, nel luglio 1972, la formazione è ancora, quasi, “storica” con Ratledge/Hopper/Dean e il nuovo arrivato John Marshall e registrano le BBC sessions a Londra (ben documentati dal “Soft Stage BBC in concert 1972”). Tempo di autunno e la band, orfana di Dean, assume il polistrumentista e compositore Karl Jenkins per le registrazioni live e studio di “Six”. Ancora qualche mese, arriviamo alla primavera 1973 e i Soft Machine sono ridotti ad un solo membro fondatore, il tastierista Mike Ratledge, perché anche Hopper lascia e al basso arriva il già noto Roy Babbington. Leggendo bene la formazione si possono quindi rilevare ben tre quarti di ex Nucleus e questo dovrà fare un po’ riflettere sull’andamento musicale del gruppo. Riflessione che anticipa di poco l’ascolto e la conferma che il quartetto si sarebbe orientato in maniera sempre più decisa verso forme di jazz rock, abbandonando in maniera crescente quegli spunti psichedelico-dadaista-canterburyani che hanno contraddistinto l’epoca precedente.
E’ effettivamente corretto citare il lato live di “Six”, che si trova ad essere precursore di questo lavoro e che ne rispecchia, in parte, anche la scaletta. Ma da questa occasione, la band, si avvicina sempre più alle forme di organico aperto e in continua evoluzione. La prima novità, forse poco nota, è che per alcune sezioni del concerto, i Soft Machine, decisero di inserire parti vocali, rivolgendosi alla cantante degli Affinity, Linda Hoyle. Per vari problemi, soprattutto di carattere tecnico, il concerto di Amburgo, dal quale è tratto questo disco, si rivelò un mezzo disastro: una parte dei brani non fu nemmeno eseguita e i pochi rimasti vennero tagliati dalle registrazioni per la troppa differenza sonora con gli altri e per alcuni fraintendimenti con una frangia del pubblico che sembrava sbraitare e non apprezzare l’esperimento. Quindi qui non sentiamo nulla di quelle sezioni. Sentiamo, invece ed è bene metterlo in evidenza, il primissimo approccio dei Soft Machine con la chitarra elettrica. Tentativo mai fatto prima e che non sarà più ripetuto fino allo splendido “Bundles” con l’arrivo nei ranghi di Allan Holdsworth. Quindi la chitarra elettrica è qui affidata a Gary Boyle, presente in tutta la “Part II” e che inserisce sonorità inedite, intrecci particolarmente caldi e dai sapori che riportano vagamente a Zappa e McLaughlin. Decisi esempi di questo lavoro sono le lunghe “Down the road”,” brano che in versione rimaneggiata finirà su “Seven” a fine anno e “Gesolreut”, tratta dal disco in studio di “Six”, entrambi rappresentati da una linea di jazz rock tirato e dalle forti tinte progressive, con equilibrismi e sincronismi tecnici di levatura stellare. Sempre in questa “Part II” un altro nuovo inserimento, relegato solo a questo tour per Art Themen, sassofono tenore e soprano, ottimo compendio a Jenkins e alle sonorità più jazz oriented del lavoro, molto bravo, citando un esempio, in “E.P.V.”, quasi interamente gestita da lui.
Il lavoro, che si sarà ormai capito essere imperdibile, comprende anche il DVD con una scaletta lievemente diversa. Anche qui spicca una prima parte con il quartetto base Ratledge/Jenkins/Marshall/Babbington e una seconda parte in cui arrivano in ordine Themen e Boyle. La forza di questo DVD è chiaramente nell’essere una rarissima occasione di vedere, oltre i soliti canonici pochi minuti, quello che era il set live della band all’epoca, assaporare la forza espressiva e il calore della loro musica e capire che tutto questo calore è da relegare esclusivamente al loro approccio musicale. In effetti non c’è un solo secondo in cui i membri si rivolgano al pubblico, presentino qualcosa, ringrazino o abbiamo una semplice parola per chi sta ad ascoltarli. Marshall è un’impressionante macchina ritmica che non stacca quasi mai gli occhi dallo strumento, Ratledge è particolarissimo nella sua differenza tra la mobilità delle dita e la rigidità del resto del corpo e, quasi per tutto il tempo, scambia occhiate d’intesa, ora con Jenkins, ora con Marshall. Jenkins ha un da fare pazzesco tra tastiere, sassofoni e oboe, difficilmente concede uno sguardo altrove. E quando si arriva alla fine, tutti si alzano, acchiappano gli spartiti e se ne vanno, così, come se ci fossero solo loro e quella fosse stata una session in sala prove. Eppure, nonostante questo apparente distacco emotivo, questa freddezza e questo disinteresse per il pubblico, su tutto aleggia un grande coinvolgimento e una grande partecipazione. Così scorrono i brani, governati da cenni di intesa e da sguardi rapidi che anticipano i cambi e gli assolo, quasi tutti fusi a mo’ di suite, grazie ai collegamenti e ai vari bridge improvvisati e semplicemente chiamati “Link 1”, “Link 2” ecc., e, il tutto, sempre delineato con la massima precisione: “All White”, “The Soft Weed Factor” la spettacolare“Riff” e ancora “Chloe and the Pirates” e anche “One Across”, nata per le scorribande percussionisti che di Marshall. Sempre la concentrazione è al massimo e, forse, è per questo che sembra di intuire il pubblico da una parte e il gruppo dall’altra. Invece il sincretismo delle parti viene evidenziato in quell’unico obiettivo di creare una serata magica. L’impatto della band è quello: freddo come le lande del Gobi, secco come le dune del Sahara, ma vivo e pigolante come le costellazioni della Via Lattea.



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Roberto Vanali

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