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Ci ha impiegato sei anni Agostino Macor a dare un seguito al primo album a nome Zaal, pubblicato nel 2004 dalla Mellow Records. Sei anni sono tanti e le cose cambiano, e anche i musicisti non sono gli stessi. Del gruppo che lavorò a “La lama sottile”, tra i quali Fabio Zuffanti, nessun componente ha preso parte alle registrazioni di “Onda quadra”, fatto che va a rimarcare l’essenza solista del progetto Zaal. Eppure, ascoltando il disco attentamente, si nota che una delle differenze rispetto all’esordio è proprio l’essere un lavoro di squadra più compatto, specialmente dal punto di vista dell’esecuzione. I musicisti di cui Macor si è circondato contribuiscono, infatti, in maniera più marcata a creare un suono definito e distinguibile. Se “La lama sottile” vedeva quindi il tastierista come protagonista principale, ora lo spazio per gli altri componenti appare più evidente, tanto che Macor si fa aiutare in alcuni casi anche nella composizione dei brani.
Ripetere l’ottimo risultato qualitativo del lavoro precedente era l’obiettivo minimo, e bisogna dire che questo è stato sostanzialmente raggiunto. La musica proposta è una sorta di jazz progressivo con influenze ambient e minimaliste, attraente e fluido nel suo dipanarsi in maniera completamente strumentale, e con una piacevolezza d’ascolto assoluta. Se vogliamo trovare altre differenze con “La lama sottile”, occorre evidenziare che mentre questo aveva uno spirito di fondo sbilanciato su arrangiamenti acustici con evidenti influenze cameristiche, “Onda quadra” sposta l’asse musicale verso un jazz rock morbido e in alcuni casi venato di funky, più elettrico, meno prog e poco sinfonico. Se il pianoforte trova quindi meno spazio e sono quasi totalmente assenti gli archi che caratterizzavano fortemente “La lama sottile”, ora è il suono mellifluo del piano Rhodes a dominare la scena, accompagnato come al solito dagli interventi solisti del sintetizzatore e dei fiati. In certi passaggi la componente ambient e minimale prende il sopravvento, come nelle brevissime “Antefatto” e “Contare in cerchio”, e in “Reveil (In the capsule)”, dove il pianoforte ripete quasi ossessivamente un tema che nella seconda parte del brano cerca di liberarsi nella melodia insieme al sassofono e alla tromba. Più sperimentale la conclusiva “Epilogo”, dove i temi suonati dai fiati si poggiano sul lento pulsare generato dal sintetizzatore, mentre la lunga “Quinto palindromo” e “Dyane 6” sono i due brani più elettrici, con una ritmica guidata da un basso martellante e le percussioni che creano atmosfere “afro” e mediterranee. Ideale punto d’incontro tra i due mondi rappresentati nel disco, quello minimale e quello jazzato, è invece “ZLG reprise”, lunga divagazione in bilico tra passaggi rarefatti e intimisti e altri più movimentati, nei quali ritroviamo anche alcune atmosfere che caratterizzarono il jazz-rock progressivo italiano degli anni ’70.
Un lavoro convincente dunque, forse meno originale del precedente ma più coinvolgente in certi passaggi, che si lascia ascoltare con rilassatezza. In definitiva, un altro punto messo a segno tra i vari progetti musicali in cui il suo autore è instancabilmente coinvolto.
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