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Innanzitutto sgombriamo il campo da un possibile equivoco: chi pretendesse di rivivere in fotocopia le (peraltro cospicue) emozioni suscitate da “Finisterre” e “In Limine”, rimarrebbe sicuramente deluso. La band è ormai lontana da quel tipo di approccio, e il nuovo lavoro rappresenta la più logica evoluzione del discorso già intrapreso col controverso (ma non per me) “In Ogni Luogo”. Il centìmano Fabio Zuffanti, autentica dea Kalì dell’underground nostrano, fin dall’intervista rilasciatami oltre un anno e mezzo fa aveva espresso la sua previsione circa l’accoglimento de “La Meccanica Naturale” presso un certo pubblico: con la divertente arguzia che lo contraddistingue, aveva affermato che i taleban-progsters lo avrebbero bruciato sulla pubblica piazza! Spero davvero che Fabio sia cattivo profeta, ma non c’è dubbio che per tanti, troppi appassionati integralisti il famoso augurio di John Cage “Happy New Ear” non è altro che un errore di stampa... E se il rinnovare la ‘verginità dell’orecchio’ talora è esercizio difficile, al tempo stesso è necessario per porsi col giusto atteggiamento di umiltà verso ciò che un artista partorisce.
Nel caso dei moderni Finisterre, la raffinatezza del passato non è andata per nulla smarrita, solamente sono cambiati i moduli comunicativi. Oggi il gruppo genovese non si esprime più con lunghe suites, bensì con canzoni... però che canzoni, signori! Le dieci tracce lungo le quali si snoda il concept prediligono atmosfere pop di prima qualità, sotto la cui scorza è rinvenibile la consueta destrezza compositiva. Si ascolti in proposito l’intrigante opener “La Perfezione”, le cui delicate ciclicità pianistiche e il malinconico mellotron fungono da spunto per la celebrazione di un Canterbury debitamente attualizzato, che si arricchisce e si complica (bene) nella seconda parte. Grande è “La Mia Identità”: il riff da brivido, le invenzioni melodico-arrangiative, l’amalgama di opposti umori... tutto sfiora la perfezione. Qui l’ascoltatore attento potrà notare qualche parallelismo con l’altro group-project ormai lanciatissimo, Maschera di Cera, e lo stesso vale per il penultimo pezzo, “La Fine”, spiritualmente accomunabile al precedente per i granitici, distorti volumi. Ma Finisterre ama anche accarezzare, come avviene nell’ottima “Rifrazioni” (composta dal solo Boris Valle), dove un arcano flicorno e un soffice pianoforte ci conducono per mano nei reami di un’ambient planante, quasi celestiale. L’unico momento un po’ avulso dal resto è lo strano saggio elettropop offerto da “La Maleducazione”: se ci sono frammentarietà pianistiche gentlegiantiane, la parte vocale si fa però terribilmente simile al modello di Giovanni Lindo Ferretti (periodo C.S.I.). E forse l’unico, generale pelo nell’uovo che mi sento di rilevare riguarda appunto lo Stefano Marelli cantante: indiscutibile come chitarrista e come compositore, quando si cimenta con la voce riesce a convincermi solo al 50%. Sulle note basse (vedi l’intro di diverse tracks) mi pare palese una certa sofferenza, mentre sul registro acuto l’interpretazione si fa più adeguata, come ne “Lo Specchio”, dove lo stile Gianni Leone è confacente. Bello il finale epico e sinfonico di tale pezzo, così come di altri. Il disco si chiude in bellezza con lo strumentale “Incipit”: la struttura circolare rappresenta in forma emblematica il concept stesso, e a ogni giro un nuovo strumento va ad arricchire l’insieme, richiamando alla memoria l’Oldfield più ispirato.
Assolutamente di livello eccelso la produzione di Franz Di Cioccio; elegante e prestigiosa la confezione digipack, come da standard Immaginifica. Per dirla col Montezemolo di Striscia la Notizia, “un prodotto esportabilissimo”, che può dunque essere pilotato con soddisfazione anche al di fuori degli angusti (e talvolta un po’ spocchiosi) confini del prog.
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