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TUSMØRKE Riset bak speilet Svart Records 2014 NOR

Se in giro per Oslo vi doveste imbattere in quattro strani figuri bardati con mantelli, lunghe tuniche e cappucci che suonano un’oscura miscela di prog folk psichedelico, state certi che si tratta dei Tusmørke. Sono sempre più convinta che questo quartetto sia una sorta di corrispettivo norvegese degli inglesi Circulus. Amore per i travestimenti compreso, le due formazioni hanno in comune diverse cose, ed hanno persino iniziato a suonare nello stesso periodo, fra il 1994 ed il 1995, approdando all’esordio discografico solo diversi anni dopo. Se i Circulus non hanno proprio nulla di nordico, i Tusmørke hanno però delle marcate connotazioni British che vengono convogliate in una matrice folk brumosa e allo stesso tempo grottesca. In entrambi i casi si respirano inebrianti fumi psichedelici, riflessi di musica antica e sonorità squisitamente vintage. Mi sembra abbastanza, anche se per spiegare l’universo del quartetto nordico non è sufficiente il paragone con i cugini inglesi. Possiamo trovare in questo nuovo album (il secondo full length dopo l’altrettanto bello “Underjordisk Tusmørke” del 2012) riferimenti ai Comus, per il loro gusto del macabro, come anche ai Gong e, tornando in lande più fredde, mi vengono in mente gruppi come Høst e Folque. Pensando invece a cose più recenti non sono fuori luogo similitudini con i Gargamel e con qualcosa dei White Willow.
Anche se il gruppo è saltato giù dal carrozzone della Termo Records, l’etichetta di Lars Fredrik Frøislie, per salire su quello della Svart, si sente ancora lo zampino del tastierista dei Wobbler che in effetti ritroviamo qui in azione nelle vesti di produttore. Il suo tocco si percepisce nella levigatezza dei suoni, graffianti e rustici al punto giusto, ma allo stesso tempo incredibilmente profondi e rifiniti, soprattutto per quanto riguarda quelli delle tastiere… e diciamola tutta, chi sarà mai il musicista che si cela dietro lo pseudonimo di The Phenomenon Marxo Solinas? Basta vedere di che po’ po’ di arsenale è in grado di disporre per avere più di un sospetto. Chi altri può mettere insieme Hammond C3, MiniMoog, Mellotron M 400, Hohner Clavinet, Rhodes, Solina String Ensemble, Marxophone, Arp Axxe, Chamberlin M-1, Optigan e Autoharp se non Frøislie in persona? E allora diciamola tutta e smascheriamoli una volta per sempre questi pseudonimi: Hlewagastir (batteria e flauto) non è altri che Martin Nordrum Kneppen dei Wobbler e, a completare il quartetto, ci sono i membri fondatori Benedikt Momrak, per gli amici Benediktator (voce, basso, percussioni, glockenspiel e saz) e suo fratello Krizla (voce, flauto traverso e dolce, percussioni, Theremin, synth). Ecco quindi che la band è divenuta Wobbler per metà e questo giustamente consideratelo pure come un elemento di garanzia.
Le canzoni sono tutte firmate dai fratelli Momrak che hanno una passione particolare per miti e leggende e per il folklore dal gusto pagano. Ecco quindi il rincorrersi di melodie ripetitive, di ritmi cadenzati e di cori rustici, a volte vigorosi, danzanti e a volte bizzarri. A proposito, le armonizzazioni vocali dei due gemelli sono molto belle e precise nelle intonazioni e mai rozze, nonostante la loro potenza ed incisività. Anche le liriche ci trascinano in situazioni oniriche e suggestive, a volte lontane nel tempo, come in “Gamle Aker Kirke” che si riferisce a una chiesa medievale di Oslo, costruita su vecchie miniere d’argento, che ha ispirato leggende di tesori nascosti e dragoni. Il sound prende poi forma con l'apporto dei due Wobbler che sicuramente hanno contribuito a limare ogni asperità e ad aggiungere un tocco sofisticato di eleganza. Prendiamo la traccia appena citata: il flauto intona melodie dal sapore gotico e gli intrecci canori sono vellutati, i suoni piacevolmente vintage, in una suggestione di impasti tenui ma brumosi, ricchi ma delicati al tempo stesso. Qui in particolare ho pensato, per i bei lineamenti folk arrangiati in un contesto progressivo, agli islandesi Hinn Íslenzki Þursaflokkur come anche agli israeliani Trespass. La traccia di apertura, “Offerpresten”, fa invece riferimento ad un rito sacrificale in onore di Nerthus, divinità del paganesimo germanico associata alla fertilità. Il brano è allegro e le ombre nordiche sono dissipate dai ritmi saltellanti e da arrangiamenti orchestrali che sfoggiano fiati imponenti da Big Band Jazz grazie alla tromba e al sax dell’ospite Johnny Olsen. Vi sono poi sprazzi di psichedelia, cori sguaiati e melodie ripetitive e sembra quasi di danzare a piedi nudi in un bosco al fresco del tramonto.
Curioso anche il significato della title track che chiude l’album vero e proprio (completato da ben tre bonus). Il titolo infatti, che letteralmente significa “bastone di betulla nascosta dietro lo specchio”, allude a un vecchio modo di dire norvegese e cioè alla frusta, o meglio alla punizione, destinata a chi trasgredisce le regole che, anche se invisibile, non è mai troppo lontana. Dal punto di vista musicale il brano, che è il più lungo del lotto con i suoi quindici minuti, si configura come una collana fatta di perline tutte diverse in forma e colore. Si passa così di intermezzo in intermezzo scorrendo un unico filo. Le dinamiche sono dapprima vivaci e dal taglio rock, con un flauto e un ammaliante organo Hammond, quando ecco che attraversiamo un primo rallentamento in cui le atmosfere si tingono di oscuri presagi e via ancora su ritmi ondeggianti fino al prossimo diversivo, ora di impatto hard blues, ora classicheggiante e barocco. Questa volta il cantato è in norvegese e la musica appare più graffiante ma pervasa allo stesso tempo di tanti incantesimi. L’album in sé, composto da cinque brani, tutti medio-lunghi, si presenta comunque compatto e potente, oltre che, cosa non da poco, molto divertente ed accattivante. “Black Swift” dalle melodie rotonde e dagli spunti dark, ricorda persino qualcosa dei connazionali Procosmian Fannyfiddlers per la sua buffa spigliatezza. “All Is Lost” invece, con i suoi ritmi ripetitivi, i riff di chitarra acidi e l’organo, il violino rustico sembra una specie di labirinto senza uscita.
Le tre bonus erano state già edite in un paio di EP e appaiono più grezze ed immediate. Il primo brano, “Mener Vi Alvor Nå”, una specie di canto gregoriano che sembra levarsi dalle fredde pietre di una chiesa sconsacrata durante una strana liturgia, proviene da “Offerpresten” del 2013 e le altre due tracce invece sono prese da “Den Internasjonale Bronsealderen” dello stesso anno. Si tratta di brani simpatici che però non aggiungono né tolgono niente ad un album bello così come è, che fa il paio con l’altrettanto interessante esordio e che è destinato inevitabilmente a collocarsi fra le uscite di punta dell’anno.


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Jessica Attene

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