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KAIPA DA CAPO Dårskapens monotoni Foxtrot Records 2016 SVE

Nella biografia dei Kaipa DaCapo che, come avrete immaginato, hanno più di qualcosa a che fare con i vecchi Kaipa degli anni Settanta (li avrete presenti, spero), non c'è neanche un accenno alla carriera di questo gruppo, così come si è evoluta dal grande ritorno sulle scene nel 2002, da "Notes from the past" in poi, con la pubblicazione di numerosi album. Quella formazione godeva dell'arrivo, accanto ai nomi storici di Roine Stolt e Hans Lundin, di sangue fresco grazie in particolare ad una nuova giovane coppia di cantanti costituita da Aleena e da Patrik Lundström (Ritual). In realtà in questo ritorno si snaturava un po' l’essenza del gruppo originale in favore di uno stile più moderno ed ammiccante, paradossalmente più in linea con i Flower Kings che con il grandioso repertorio del passato, sebbene il compositore principale rimanesse in sostanza il vecchio leader e tastierista Hans Lundin. Nel 2007, con "Angling Feelings", Roine Stolt saltò giù da una barca ormai alla deriva lungo corsi melodici non più tanto stimolanti: la storia dei Kaipa continuava, nonostante tutto, ma forse per qualcuno era tempo di riavvolgere il nastro e di ricominciare.
E' così che Stolt, assieme ad altri due veterani che erano stati tagliati fuori dalla carriera più recente dei Kaipa, e cioè Ingemar Bergman (batteria e percussioni) e Tomas Eriksson (basso), ha iniziato a risuonare in giro il vecchio repertorio. Più tardi arriva anche l'ingresso in un vero studio per la registrazione di nuovo materiale con la collaborazione di giovani rimpiazzi nelle persone di Michael Stolt (voce solista, chitarre, tastiere e Moogbass) e Max Lorentz (tastiere, organo liturgico, Moog, Mellotron, Hammond e Sitar).
Il nome Kaipa DaCapo sembra quasi una provocazione, come a voler rivendicare la propria autenticità ed il proprio indissolubile legame con il gruppo storico e sono convinta che anche la scelta di tornare ai testi in lingua svedese faccia parte di questa visione. Se da una parte la sinfonicità solare dei primi Kaipa rivive davvero nella traccia di apertura, la title track, la stessa cosa non si può dire per la maggior parte del materiale presente in questo album, infiacchito da scelte musicali spesso modeste e prive di significativi slanci emotivi e creativi. Ci rendiamo ben presto conto che in realtà i Kaipa DaCapo sono eredi dei vecchi Kaipa nella stessa misura in cui possono esserlo altri giovani gruppi che mettono al centro delle loro canzoni un sound sinfonico con preziose sonorità vintage. Non troviamo di fatto continuità con quel passato verso cui molti di noi provano nostalgia ma un generico e piacevole sapore familiare che non ne rappresenta affatto la naturale evoluzione. Il feeling che possiamo percepire è quello di vecchi amici che si ritrovano per fare qualcosa insieme e non certo quello di chi vuole spaccare il mondo e mostrare agli altri di cosa si è capaci.
Tutto è confezionato con grande professionalità, come ci si potrebbe aspettare in relazione all’autorevolezza e alla grande esperienza dei musicisti, ma nessuna rivoluzione di fatto è lì ad attenderci. L’autore principale è Stolt e si sente perfettamente, anche se il nostro questa volta non sembra avere la testa immersa nei suoi Flower Kings. Il suo sguardo è effettivamente volto indietro in un compromesso pur sempre accettabile. Lo percepiamo nelle ampie aperture sinfoniche che riflettono la bellezza di capolavori come “Ingett Nytt Under Solen”, nelle belle partiture di chitarra che forniscono un’innervatura consistente ma anche lunghi assoli. Non so se per creare un contrasto con i più recenti e paralleli Kaipa di Lundin, è stata scelta una voce solista ruvida e profonda come quella di Michael, perfettamente in tinta con certe gradazioni hard blues che emergono qua e là a più riprese.
Già la seconda traccia, “När Jag Var En Pojk”, mette a nudo una struttura piuttosto semplice. Le tastiere danno un minimo di colore e il pezzo naviga sul medesimo treno di accordi e sulle solite melodie che ruotano ciclicamente, con ondate emotive più o meno intense. Anche per i suoi accenti blues sembra quasi di ascoltare, pur con l’arricchimento di qualche spiraglio sinfonico, qualcosa di Gary Moore. Dieci minuti per un pezzo così sono forse un po’ troppi.
Il terzo brano, “Vi Lever Här”, è ancora una ballad, questa volta addirittura più sbilanciata sul versante AOR, perfetta per essere cantata in coro e in effetti somiglia a una specie di inno, scandito nel ritmo e privo di sorprese. Scintille dei vecchi Kaipa che si accendono di quando in quando non ci restituiscono il vecchio gruppo e non ne rappresentano che una vaghissima idea.
Atmosfere da kolossal spiccano invece nella successiva “Det Tysta Guldet”, con una batteria ben scolpita che vuole essere maestosa… e forse effettivamente lo è, ma la sua regolarità eccessiva non colpisce e il brano manca decisamente in ricchezza strumentale, come ci si aspetterebbe da un pezzo simile. In generale i pezzi più lunghi godono di momenti strumentali piuttosto sinfonici ma in sostanza l’effetto sembra quello diluire la solita zuppa. Gli arpeggi e la voce solista triste di “Spår Av Vår Tid”, con i suoi toni semplici e pacati, ricordano invece Neil Young ed i campanelli che oscillano ritmicamente, come seguendo la cadenza di una pigra passeggiata in carrozza, offrono quasi un clima natalizio.
“Tonerna” si apre in modo più interessante e lo sforzo creativo appare finalmente superiore a quanto fin qui ascoltato. Gli incroci di assoli fra organo e chitarra sono notevoli, sebbene i temi melodici principali siano ricorrenti. Il brano si compone di blocchi che si snodano lentamente in lunghe sequenze per un totale di 17 interminabili minuti, non sempre però impiegati al meglio.
“Monoliten”, l’ultima del lotto, con un sitar che offre sonorità alternative ma che aggiunge ben poco a questo ennesimo pezzo lento, non smentisce lo spirito generale di un album che non invoglia molto ad una analisi più profonda e che mi sento di ascoltare a fondo solo per dovere di cronaca. In fondo in fondo mi rendo conto che la recensione di questi brani è tutta racchiusa nel titolo del disco, sono monotoni, e questo aggettivo è senza dubbio quello che meglio li descrive.



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Jessica Attene

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