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Il nuovo album solista di Roine Stolt era stato annunciato come un passo in direzioni musicali ancora inesplorate dall’artista, che pure ha avuto occasione di coprire un buon repertorio di generi, dal sinfonico classicheggiante dei primi Kaipa al revival canterburiano dei Tangent, dal prog-karaoke (perdonatemi la definizione) dei Transatlantic e dei Flower Kings fino alle sperimentazioni del suo “Hydrophenia”.
Per quanto le recenti produzioni della sua band principale (e le collaborazioni col suo vecchio compagno Hans Lundin) mi abbiano lasciato indifferente, per usare un eufemismo, è con un pizzico di curiosità che mi accingo al primo ascolto di questo lunghissimo album doppio, suscitata forse anche dalla lettura dei misteriosi pseudonimi dei componenti della sua backing band.
“And now for something completely different…”, per dirla con Eric Idle dei Monty Python…ed in effetti la chitarra blues che apre “The observer” sembrerebbe riservare elementi di novità, se non entrasse in scena già dopo un minuto scarso la solita linea vocale recitata e filtrata, ormai trademark di Stolt, a farmi saltare all’orecchio una dispettosissima pulce: bastano cinque minuti ad alimentare in me un dubbio atroce, tanto da spingermi a rovistare affannosamente sullo scaffale, convinto di possedere già questo disco e forse anche in multipla copia. E’ troppo, e non posso attendere gli interminabili undici minuti del brano: premo il tasto skip, ed eccomi alla successiva “Head above water”. Un attimo, non è la voce di Neal Morse quella che sto ascoltando? Torno a sbirciare tra i credits, e in effetti tra i vari Gonzo Geffen, Slim Pothead e Victor Woof (forse membri in incognito della band floreale) trovo anche il nome dell’ex leader degli Spock’s Beard: il brano è orecchiabile e l’Hammond suonato da Neal è frizzante e gioioso, ma l’impressione dello sfruttamento di vacche già ampiamente munte all’epoca dei Transatlantic è troppo forte per suscitare un interesse che vada oltre il flebile battito di un ciglio.
Da questo punto in poi mi tranquillizzo e comprendo finalmente di non essere vittima né di uno scambio di dischetti né tantomeno di una potente allucinazione uditiva: avevo semplicemente dimenticato che il metodo di lavoro di Roine consiste nella riproposizione ad libitum di idee che potrebbero risultare interessanti se arginate in un lavoro di 40 minuti, e lo applica invariabilmente a tutte le sue produzioni finendo per annegare le buone intenzioni nella prolissità.
La svolta rock-blues tanto sbandierata non è in fin dei conti che uno spostamento del baricentro verso un’influenza che comunque è sempre stata presente negli album dei Flower Kings, e che non ne ha certo rappresentato il lato più creativo. Immaginate di espandere un brano come “Genie in a bottle” (da “Unfold the future”) fino a raggiungere la durata di due ore, ed otterrete un’idea piuttosto prossima al contenuto di questo “Wall Street Voodoo”, il cui ascolto continuato è un’impresa tanto titanica che una volta compiuta con successo potreste sorprendervi a fischiettare sotto la doccia gli interi 80 minuti di “Tales from Topographic Oceans”.
Ovviamente, data la portata elefantiaca dell’album, è pur possibile trovare qualche episodio da salvare: così nel primo CD la beatlesiana “Everyone wants to rule the world”, ancora con Morse, è un’isola felice, nel secondo disco la coda crimsoniana di “Hotrod” ci scuote un po’ dal torpore e ci libera per qualche minuto dal monocorde fraseggio vocale di Stolt, infine la chiusura “People that have the power to shape the future” sarebbe stato un brano piacevole se non fosse stato afflitto dalla solita logorrea compositiva che lo ha portato all’esagerazione degli undici minuti.
Mi verrebbe da concludere definendo l’album il trionfo del superfluo e della ridondanza, ma con questo giudizio non voglio mettere in dubbio che i numerosi seguaci die-hard del prolifico chitarrista di Uppsala possano trovarvi comunque motivi di soddisfazione.
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