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WOBBLER |
Rites at dawn |
TermoRecords |
2011 |
NOR |
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Secondo la corrente del Neoclassicismo, sviluppatasi in Europa fra il XVIII ed il XIX secolo, l’artista che prende come punto di riferimento le opere classiche deve riuscire a coglierne l’intima essenza, calandosi nel pieno spirito del periodo, e non fare delle semplici riproduzioni. L’imitazione si distingue così dalla copia: mentre quest’ultima si limita a riprodurre sterilmente l’aspetto esteriore del modello, la prima, che passa attraverso l’interpretazione del passato, non compromette l’originalità dell’artista. Se dunque accettiamo che il Progressive Rock è divenuto un genere musicale in piena regola, allora dobbiamo anche ammettere che le creazioni odierne devono attenersi in qualche modo a dei canoni che vengono estrapolati dalle opere del passato. Questo concetto cozza un po’ con l’idea di chi pretende che questa corrente musicale debba basarsi sull’evoluzione e sulla ricerca. Chi fa della sperimentazione il suo credo non può semplicemente rifarsi ai modelli del passato, ma se smettiamo di prendere come punto di riferimento i classici degli anni Settanta, allora le nostre creazioni possono ancora definirsi Prog? Sicuramente questo è un ottimo argomento di dibattito al quale non voglio tentare di trovare in questa sede una parvenza di soluzione. Senza complicarsi troppo la vita alla ricerca di cosa sia più o meno degno di essere considerato Prog al giorno d’oggi, vorrei soltanto presentarvi questa semplice similitudine: come il mio cuore sussulta alla vista delle opere del Canova perché vi riconosce lo spirito e l’essenza dei modelli classici e ne apprezza la raffinatezza di esecuzione e al tempo stesso riesce a cogliere tutta la sensibilità dell’artista, allo stesso modo il mio orecchio non può rimanere insensibile a questo nuovo album dei Wobbler che, come nelle loro dichiarate intenzioni, si sono perfettamente calati nello spirito degli anni d’oro del Progressive Rock e ne hanno rubato i colori, le emozioni e le pennellate, producendo un’opera che imita il passato ma senza copiarlo. E lo hanno fatto in maniera abile, con tutta la loro capacità tecnica e tutta la loro sensibilità. Ma c’è di più, anziché giocare ancora la carta degli effetti speciali e dei fuochi artificiali, questa volta il gruppo di Lars Fredrik Frøislie ha scelto la strada dell’elegante e semplice complessità. Non troverete quindi cattedrali di tastiere e labirinti di suoni, ma una apparente linearità che nasconde però una accurata ricerca delle timbriche, delle giuste sfumature di colore e una perfezione maniacale nella creazione dei giusti arrangiamenti. Ne risulta un’opera sicuramente meno bombastica e magniloquente ma decisamente più lirica e delicata che si lascia ascoltare in maniera assolutamente piacevole. Si può rimanere fermi al primo livello di ascolto ma mi auguro che ognuno di voi si addentri con le esperienze successive nella scoperta dei singoli dettagli, assaporando fino al midollo ogni timbro sonoro. Le sfumature da questo punto di vista sono tantissime e tutte squisitamente vintage, come si può già intuire scorrendo semplicemente l’elenco delle tastiere che Frøislie ha a sua disposizione e che vi posso assicurare sono state tutte utilizzate in maniera estensiva e massiccia, pur senza appesantire il sound complessivo. Segnaliamo un piccolo cambiamento di line-up che ha portato il cantante Andreas Strømman Prestmo a sostituire Tony Johannessen e bisogna dire che il cantato del nuovo arrivato si adatta perfettamente alla nuova direzione musicale della band. La voce di Andreas è vellutata e mai prepotente e si insinua dolcemente fra i morbidi tappeti di Mellotron ed i tenui chiaroscuri della musica. Non si può fare a meno di notare, fin da un primissimo approccio, una decisa influenza mutuata dagli Yes, soprattutto per quel che riguarda il basso. Ma non pensate assolutamente ad una imitazione in stile Glass Hammer, per intenderci. Qui in confronto il Moog è un latitante mentre ha un ruolo molto più pesante il Mellotron (ma anche il Chamberlin) che invece ci spinge a tratti verso i Genesis. Ma le influenze sono davvero molteplici e possiamo benissimo sentire fra le pieghe di questi spartiti i Gentle Giant che si ibridano con molteplici altre sensazioni di déjà écouté. Fra i sette pezzi di questo album voglio segnalare l’impressionante cavalcata di “In Orbit” che nei suoi 12 minuti e mezzo a più riprese mi ricorda “Achilles Last Stand” dei Led Zeppelin, oppure la splendida “The River” con i suoi intriganti inserti di folk nordico e delle linee vocali cantabili che rimangono ben impresse nella memoria. In linea generale questo album somiglia molto di più ad una rilettura del classico prog sinfonico come poteva essere visto dagli americani del periodo. Non a caso più che i Gentle Giant e gli Yes potrei meglio appellarmi a Yezda Urfa o Ethos e non mi sbaglierei di molto ma in fondo si tratta di elucubrazioni che lasciano un po’ il tempo che trovano. Il messaggio essenziale e fondamentale è che questa è la quintessenza del Prog Sinfonico che vi farà sognare. Un album neoclassico d’autore da amare senza ipocrisia, vintage anche nella durata che con i suoi 45 minuti è adattissima ad un formato su vinile… che infatti esiste (in edizione limitata)!
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Jessica Attene
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