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Già da un po’ di tempo, come anticipatoci dallo stesso leader Jacob Holm-Lupo, si parlava di un ritorno alle sonorità di “Ignis Fatuus”, l’album di esordio che è rimasto nel tempo, agli occhi dei fan, il metro per giudicare tutte le produzioni successive dei White Willow. Quel disco, risalente al 1995, segnava, assieme ad altri album nordici del periodo, la rinascita di un certo interesse verso il Progressive Rock europeo, la cui influenza mantiene tutt’ora la sua forza, e di certo costituisce per questo un’eredità abbastanza pesante. Nonostante ciò i White Willow sono andati avanti per la loro strada attraverso numerosi cambiamenti sia di formazione che di stile, sperimentando soluzioni diverse, dai sogni gotici di “Sacrament”, alla pesantezza claustrofobica di “Storm Season”, fino ad arrivare alle tentazioni poppish di “Signal to Noise”. Il tanto acclamato ritorno alle origini c’è stato, nel senso che possiamo assistere ad un parziale recupero di quegli affascinanti ed oscuri temi folk mescolati a sonorità vintage penetranti degli esordi, ma allo stesso tempo il gruppo ha saputo far tesoro di tutta l’esperienza accumulata negli anni, convogliando in questa opera molti tratti e molte caratteristiche che via via sono emersi nelle diverse produzioni discografiche. Già la traccia di apertura, “Hawks Circle the Mountain”, mostra degli evidenti punti di contatto con il folk prog di “Ignis Fatuus” ma allo stesso tempo presenta contaminazioni sofisticate e moderne, aperture sinfoniche e appesantimenti sonori che dimostrano come il tempo sia passato e la band abbia rinfrescato il proprio linguaggio, pur mantenendo intatto il proprio marchio di fabbrica. A tutto questo si aggiunge una nuova luce, pur sempre crepuscolare, che sembra prevalere però sulle tenebre del passato attraverso una indefinita dolcezza di fondo che getta un seme di speranza su scenari comunque malinconici o in generale “negativi”. Così in “Hawks Circle the Mountain”, guardando i falchi che volteggiano attorno alle cime dei monti, ci si riesce ad elevare al di sopra dello smog, le macerie e la decadenza del mondo sottostante e l’unico appartamento abitato (“Floor 67”) di un grattacielo del Brasile rimasto deserto a causa della crisi immobiliare, si trasforma in una specie di rifugio magico. Questa nuova emotività più distesa, più dolce, dona sicuramente una prospettiva diversa alla musica del gruppo. Alcune scelte tecniche ed artistiche hanno mostrato il loro effetto positivo sulla riuscita dell’album: prima di tutto c’è il ritorno di quella che può essere considerata la voce classica dei White Willow e cioè quella di Sylvia Akjellestad (meglio nota come Erichsen) la cui performance appare particolarmente brillante. Il suo timbro è limpido ed emotivamente coinvolgente ed il suo cantato si modula alla perfezione in base agli scenari musicali, apparendo sempre comunicativo, dolce e deciso. Ascoltate per l’esempio l’incipit di “Red Leaves” in cui la sua voce romantica è accompagnata solo dal piano (che è poi una colta citazione di un vecchio pezzo di Banks, al quale il brano è esplicitamente dedicato) in maniera così semplice ed emozionante. Poi c’è il drummig dell’ex Änglagård Mattias Olsson (che aveva già collaborato nell’album “Ex Tenebris”), al quale si affianca una nuova bassista, Ellen Andrea Wang, proveniente dalla band avant-rock SynKoke, che completa quella che si rivela una sessione ritmica duttile ed efficace anche sul piano timbrico. Apprezzo inoltre la scelta di abbandonare i costosi studi di registrazione in favore di una produzione home made con equipaggiamenti a volte un po’ primitivi (come specificato dalla band) che dona all’opera senza dubbio freschezza, dinamicità e un piacevole tocco live, soprattutto in confronto ai precedenti tre dischi molto più patinati e “perfetti”. Questa produzione si sposa alla perfezione con l’ampia gamma di suoni vintage fornita in primis dal tastierista Lars Fredrik Frøislie che ha fatto uno splendido lavoro con il suo esercito di tastiere d’epoca che ben conosciamo. Troviamo bellissimi e abbondanti momenti Mellotronici, con registri prevalentemente oscuri, soprattutto nei momenti più folkish, ma anche inedite soluzioni à la Genesis post Gabriel o forse anche in Yes style, come nella splendida “Red Leaves” con le sue tastiere trionfanti. Ai bellissimi suoni di tastiere usate a profusione (ricordo che anche Jacob-Holm Lupo e Matthias Olsson ne fanno uso) troviamo un rinnovato gusto per gli elementi acustici con eleganti inserti di chitarra classica ed il flauto seducente di Ketil Einarsen. Ascoltate per esempio la deliziosa ballad “Kansas Regrets” che parte proprio da una base di chitarra classica con la voce solista che questa volta, e solo in questo brano, è quella di Tim Bowness dei No Man. Il brano, fatto di suoni impalpabili, si arricchisce via via di sensazioni ovattate e psichedeliche e vaghi sentori post-rock, con un flauto che si intreccia morbidamente al piano elettrico. A convincere di più sono proprio le scelte melodiche che presentano dei disegni leggibili e piacevoli anche quando il tessuto musicale si fa più complesso. Ascoltando più volte l’album si scoprono tante stratificazioni, a volte molto complesse, e tantissimi particolari seminascosti ma il senso della melodia non viene mai meno, anche quando i suoni si fanno più potenti. Ogni variazione di timbro, ogni colore musicale, non è frutto del caso ma la tecnica e la ricercatezza non passano mai in primo piano rispetto ai disegni melodici e soprattutto ciò che in prima istanza arriva al cuore dell’ascoltatore è la voce di Sylvia che interpreta fra l’altro testi molto poetici. Fra i momenti più belli dell’album mi piace citare “Searise” una traccia lunga (13 minuti circa) e molto variegata che presenta bei momenti sinfonici fra Genesis e King Crimson con un tocco di folklore nordico ben individuabile e colate infinite di Mellotron. Io credo che Jacob Holm-Lupo abbia messo tutto sé stesso in questo album e vi abbia riversato tutta l’essenza dei White Willow ed il risultato è sotto gli occhi di tutti. Il Progressive Rock del nord è tornato ed i White Willow hanno vinto la sfida contro sé stessi con un album che sfiora i vertici di “Ignis Fatuus” e forse li supera per alcuni aspetti… ma questo sarà il tempo a confermarlo, nel frattempo apriamo le porte all’inverno.
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