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Cosa sarebbe un album dei White Willow senza alcun cambiamento di line-up? I nostri crepuscolari norvegesi, guidati dall’unico punto fermo della formazione, il chitarrista e compositore Jacob Holm-Lupo, si sono assicurati questo primato privandosi stavolta del secondo chitarrista Johannes Sæbøe e soprattutto cambiando vocalist: dopo due album in cui la sua personalità di interprete aveva convinto un po’ tutti, scende dal salice bianco la brava e misteriosa Sylvia Erichsen. Il nuovo arrivo si chiama Trude Eidtang e come Sylvia (che probabilmente non si sentiva più a suo agio in tale contesto…) non proviene da ambienti strettamente progressive, e ciò fa sì che il suo stile sia piuttosto influenzato da esperienze aliene al genere come quelle di Kate Bush, Elizabeth Fraser o addirittura Annie Lennox.
E’ palese come la band abbia voluto cercare con questo “Signal to Noise” di allargare la cerchia dei potenziali acquirenti, affidando il lavoro di produzione a una vecchia volpe come il danese Tommy Hansen (già in studio con gli Helloween, tra gli altri) e modellando una metà dei brani su durate e strutture quasi radiofoniche (“Joyride” su tutte, di cui è stato prodotto anche un videoclip).
Se questa premessa dovesse avervi messo in allarme, posso finalmente tranquillizzarvi affermando che la proposta è certamente meno crepuscolare di “Sacrament”, meno folk di “Ignis Fatuus”, meno hardeggiante del precedente “Storm Season” (ottimo, ma a volte un po’ appesantito dai riff distorti) ma ancora sufficientemente personale e riconoscibile.
Semplicemente, Holm-Lupo e i suoi hanno forse definitivamente abbandonato certe suggestioni dark e seventies che a suo tempo fecero gridare al capolavoro le numerose orecchie assetate di Mellotron e folclore scandinavo, orecchie che a metà dei ’90 erano ancora sbronze dall’ascolto dei primi Änglagård e Anekdoten e cercavano avidamente sonorità affini.
Questa versione light e modernizzata dei White Willow è senza dubbio ancora capace di ottimi spunti e dell’occasionale volo pindarico (come la ritmica inquietante di “Ghosts”, ideale soundtrack di un film da sudori freddi); il brano di apertura “Night Surf”, breve e orecchiabile è un ottimo tester per mettere in chiaro gli intenti dell’album (e finisce per imboccare la stessa direzione intrapresa dagli ultimi Paatos) ma già la seguente “Splinters” ha un sapore di “salice” inconfondibile e ci rassicura sulla consistenza del nuovo lavoro ribadendo l’integrità artistica della band.
Stranamente, nonostante tutto l’armamentario citato nei credits, stavolta è un po’ da parte Lars “Wobbler” Frøislie, che con le sue mille tastiere solo raramente (vedi “The Lingering”) emerge da un insolito ruolo di supporto, mentre il gustoso solo di Moog sulla cameliana “Chrome Dawn” è da attribuire all’ospite Brynjar Dambo. Non pensate che questo comporti un dominio assoluto delle chitarre: mai come oggi la band ha suonato come tale, senza protagonismi o solismi eccessivi, anche la suadente voce di Trude in fin dei conti ben si sposa con il nuovo corso (nonostante le melodie vocali non siano il maggior pregio dell’album…) e fa molto piacere notare che il giusto spazio è stato concesso anche al flauto del fidato Ketil Einarsen, elemento di continuità sonora con i primi Willow.
Come chiusura, mi piacerebbe ribadire che pur contenendo elementi che (volutamente) limitano un po’ la creatività della band e la incanalano in direzioni più fruibili e prevedibili, questo lavoro non costituisce un’opera di “rottura” con il passato né in fin dei conti si può parlare di passo falso: è semplicemente l’ultima tappa di un’evoluzione sonora già iniziata da anni. Secondo me un disco da avere: almeno per chi ha apprezzato i precedenti il rischio di rimanerne delusi è molto basso, il resto è solo questione di nostalgia…
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