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Il più grande tentativo di depistaggio della storia del Prog? Non lo so. Sta di fatto che la copertina di Roger Dean, non originalissima ma dai tratti inconfondibili, lascia immaginare tutto tranne che l’effettivo contenuto di questo album e, come se non bastasse, la musica che investe i nostri padiglioni auricolari, sicuramente curiosi e assetati di novità da parte di questo amatissimo gruppo che latitava da un pezzo, è qualcosa di distante non solo dall’apprezzatissimo “Terminal Twilight” (che ha ormai compiuto sei anni) ma anche dal resto del repertorio dei nostri amici norvegesi (che giunge allo stato attuale a quota 7). Non dovremmo stupirci più di tanto, visto che i White Willow ci hanno da sempre abituati ai cambiamenti, sia di line-up che di stile, arrivando a soluzioni musicali a volte diametralmente opposte ma, per quel che mi riguarda, non mi sarebbe dispiaciuto qualcosa di più rassicurante e vicino al loro vertice artistico che rimane, a distanza di tanto tempo, l’amatissimo esordio “Ignis Fatuus” (1995). E invece eccoci qui, sballottati in un mare in tempesta, alle prese con nuove metamorfosi che partono sicuramente dall’arrivo di una nuova cantante che sostituisce Sylvia Erichsen, discostandosi fra l’altro vistosamente dal suo temperamento artistico. La pop singer Venke Knutson ha una voce flebile ed algida, è priva di particolari estensioni, somiglia forse un pochino a quella di Petronella Nettermalm ma non possiede sicuramente il suo stesso fascino. E proprio ai Paatos, nella loro veste più moderna, poppish ed elettronica, ho subito pensato ascoltando queste canzoni. Un altro fattore che deve aver contribuito non poco a scolpire le nuove sembianze del gruppo devono essere state le numerose esperienze di Mattias Olsson in progetti come Necromonkey o Kaukasus, soprattutto a causa di certe incursioni elettroniche e noise con scelte timbriche, per quel che riguarda il drumming, oserei dire a tratti fredde e post moderne. Ma iniziamo pure dalla title track, collocata proprio in apertura, ed è tutto un disciogliersi a cascata di tonalità tastieristiche finemente nebulizzate, nuance elettroniche e sonorità soffuse e stratificate, come nuvole iridescenti che aleggiano tutt’attorno. Il sopraggiungere della batteria elettronica è forse un po’ spiazzante ed il brano ha un disegno generale un po’ confuso e dai tratti indistinti. In “Silver & Gold” possiamo percepire un po’ di quell’umore cupo ed affascinante tipico dei White Willow ma sono impressioni frammentarie. La voce di Venke è tenue e sussurrata e la musica è ovattata. “In Dim Days” è un turbinio di sensazioni elettroniche e sofisticate in stile decisamente Paatos. Le melodie sono indefinite, i colori impastati ed i tratti tastieristici poco chiari con una musica che non prende corpo, indecisa su più fronti con squarci di tenebre, sensazioni dark, momenti di vuoto e la chitarra a volte stridente e Frippiana. L’elemento di maggiore fluidità è forse quello vocale che naufraga in un ambiente sonoro piuttosto ostile. “Where There Was Sea There Is Abyss” è una visione strumentale molto breve che lascia presagire aria di tempesta e di ispirazione molto Tarkovskjana. Con “A Scarred View” siamo in pratica già arrivati in fondo al disco che è poi completato, nella versione in CD, da due bonus track. Si tratta del pezzo più lungo in assoluto, con i suoi imponenti diciotto minuti di durata. Si parte con una sensazione ambient di vento ed è come planare lentamente in alta quota, seguendo morbide spirali di suoni ovattati ed è come se, approssimandosi alla terra, l’aria divenisse via via più pesante. Veniamo trattenuti in questo limbo per almeno tre minuti, quando poi arriva la voce sottile, lieve e fragile di Venke su uno sfondo musicale quasi inesistente. Anche quando la musica prende corpo, essa si basa su scelte architettoniche discrete ed i vari elementi vanno ricercati lontano, staccandosi dal piano vocale con molta fatica, come si trattasse di un merletto ben lavorato che deve abbellire senza rubare troppo lo sguardo. I momenti strumentali offrono nuance tastieristiche sempre impastate, sostenute a volte da una batteria palpitante e l’effetto può essere quello di un vecchio nastro deteriorato che lascia variazioni di intensità e lacune. Alcuni elementi hanno il sapore dei tardi anni Settanta, con un che di etereo ed elettronico che stentiamo a ritrovare nel passato repertorio del gruppo. Arrivando alle bonus track, la scelta di inserire una cover degli Scorpions, “Animal Magnetism”, potrebbe quasi sembrare uno scherzo di dubbio gusto ma direi che per la sua particolarità questa traccia non stride più di tanto con quanto ascoltato fin qui. La seconda bonus track è “Damnation Valley”, un breve pezzo firmato da Lars Fredrik Frøislie dominato dal piano. Non si può dire che i White Willow non abbiano avuto coraggio, non si siano messi in gioco, non abbiano osato. Le intenzioni sono certamente buone, la classe dei musicisti indiscutibile, con qualche riserva sulla scelta della nuova cantante che manca forse in carattere, ma il risultato finale è forse un po’ discontinuo e altalenante, nonostante diverse buone intuizioni. Insomma, ripensando al titolo dell’album direi che abbiamo poche certezze al momento ma grandi speranze per il futuro che ci riserverà sicuramente sorprese e cambiamenti, mi auguro però in meglio rispetto a quanto ho potuto apprezzare in questi cinquanta minuti e oltre.
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