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“Free improvisation”. Parlano chiaro gli Hillmen nelle note di copertina. La loro musica è libera improvvisazione. E le quattro composizioni presenti in questo cd sono state registrate senza sovraincisioni in delle sessions in cui i musicisti non hanno fatto altro che incontrarsi e iniziare a suonare. Liberamente. Senza alcun accordo preso in precedenza. Senza alcuna struttura già abbozzata. E il fluire libero di note e ritmi si avverte in pieno in questi quarantatre minuti. L’anima sperimentale del progressive viene indirizzata verso un jazz-rock elettrico ed espressivo, caratterizzato da un sound secco, a tratti persino algido, senza fronzoli, con chitarra, organo e piano elettrico che interagiscono naturalmente, avvicinandosi, come attitudine, al Miles Davis che con “Bitches Brew” fece avvicinare in maniera esplosiva due generi che fino a poco tempo prima sembravano agli antipodi. L’improvvisazione degli Hillmen, tuttavia, non si spinge mai nettamente verso il jazz, o verso l’avanguardia, o verso il puro esibizionismo tecnico. E’ un sound in continuo divenire quello che ascoltiamo. Melodie avvolgenti, intarsi strumentali brillanti, con basso e batteria che sanno accelerare, rallentare, variare, o anche tenere ossessivamente lo stesso tempo per un po’. E’ un’improvvisazione il cui carattere di libertà e il cui orientamento fusion non vogliono comunque far perdere di vista il feeling. E così non è mai estrema, ogni tanto strizza l’occhio alle contaminazioni rock che tra fine anni ’60 e inizio ’70 potevano adottare artisti come Santana e Traffic e sa lasciarsi andare anche a solos infuocati. Senza dimenticare ipnotismi vagamente floydiani (in particolare all’inizio della terza traccia “Patio view”) che spingono verso la psichedelia… Si parte dal passato per arrivare al giorno d’oggi: timbri classici modernizzati, pulizia sonora e contaminazione che nonostante le influenze storiche appare moderna. I protagonisti? I nomi di Gayle Ellett e Mike Murray dovrebbero già dirvi qualcosa, considerando che si tratta, rispettivamente, del tastierista e del chitarrista dei Djam Karet, band che da ormai tanti anni porta avanti un discorso personalissimo, che ha sempre amato il rischio e che è sempre stata pronta a sperimentare. A completare la line-up troviamo poi il batterista Peter Hillman e il bassista Ralph Rivers (nei due brani conclusivi sostituito dall’ospite Steve Re). I quattro musicisti si sono incontrati a Topanga, in California, e hanno iniziato a suonare e questo “The Whiskey Mountain Sessions” (uscito per la Firepool Records, nuova etichetta dei Djam Karet) è il risultato finale, con il suo jazz-rock aperto a varie contaminazioni, con la sua forza di insieme, con la sua spontaneità coinvolgente. Il tutto da ascoltare con la dovuta attenzione e con il giusto trasporto.
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