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A distanza di tre anni da “A sky full of stars for a roof”, ecco un nuovo disco per gli statunitensi Djam Karet, distribuito in formato digitale e in cd in edizione limitata. Il titolo è “Island in the red night sky” e nasce dalle stesse sessioni di registrazione del predecessore. La pandemia ha rallentato forzatamente certi percorsi, ma ha dato anche lo spunto per creare un concept distopico che è comunque legato al mondo in cui viviamo. La band californiana ce lo presenta, come al solito, con una proposta quasi interamente strumentale di grande valore, grazie alle doti compositive ed esecutive che contraddistinguono i musicisti. Il nucleo è quello affiatato e rodatissimo formato da Gayle Ellett (chitarre, mellotron, tastiere, sintetizzatori e mille altre diavolerie), Mike Henderson (chitarra acustica 12 corde e tastiere), Chuck Oken jr (batteria, tastiere e soundscapes) e Henry Osborne (basso), ma ci sono anche ospiti che contribuiscono con sitar, chitarre, piano e canto. La musica è quella a cui ci hanno abituato i Djam Karet degli ultimi anni, che sembrano aver trovato un giusto equilibrio tra le sfuriate elettriche che caratterizzavano i primi lavori, le tendenze ambient emerse all’inizio degli anni ’90 ed un po’ di contaminazioni acustiche che donano un tocco di raffinatezza in più. Già la traccia di apertura “Arrival” evidenzia questo indirizzo, tra tappeti sonori ipnotici, arpeggi eleganti di chitarra e momenti solistici suggestivi. Dal secondo brano “The master’s palace” la struttura dei brani si fa ancora più imprevedibile, ma la maestria dei Djam Karet fa sì che l’ascolto non sia mai pesante o confusionario. Così ci ritroviamo ad ascoltare soluzioni in cui si passa da momenti di atmosfera molto riflessivi a tentazioni blues-rock, dal fascino orientale del sitar a trovate elettroniche che contribuiscono a dare quei toni dark adatti al concept. Si prosegue e ci troviamo di fronte a slanci da corrieri cosmici (“The continuum”), visioni psichedeliche/floydiane (“Code – T1242”), elettronica incentrata sui sintetizzatori, un po’ Tangerine Dream anni ’80, un po’ Klaus Schulze (“The other side” e “Light scattering by small particles”), mix indefinibili di timbri elettrici, elettronici e acustici a costruire bizzarre melodie (“Woolsey town”). E si arriva alla conclusione di “A new dawn”, che su una base più maestosa fa riemergere quelle chitarre graffianti da sempre patrimonio importante della proposta dei Djam Karet. E l’effetto è agrodolce, come un bagliore di luce, piccolo, in questa ambientazione a tinte fosche che ci ha avvolto. Finora il mood si è mantenuto costantemente tra il minaccioso e il malinconico, colpendo, assalendo e al contempo affascinando. Merito di questa particolarissima combinazione di strumenti atipici che vanno ad affiancare quelli più tradizionali e di questi paesaggi sonori coinvolgenti sapientemente costruiti. Solo alla fine la tensione quasi asfissiante viene meno e, anche grazie al rumore del mare e al canto dei gabbiani, si percepisce questa nuova alba di speranza. Analizzando il lavoro nel suo complesso, possiamo dire che stilisticamente non siamo distanti dal sound che permeava l’album precedente e non poteva che essere così, anche se in questa occasione si accentua la voglia di sperimentare con l’elettronica e i sintetizzatori. L’impressione è che le cartucce migliori delle sessions siano state sparate con “A sky full of stars for a roof”, ma siamo comunque al cospetto di un ottimo disco, di altissima qualità, a conferma di che gruppo straordinario siano i Djam Karet. E, nonostante una carriera ormai vicina ai quarant’anni ed una produzione ampia e di tutto rispetto, c’è chi ancora non ha capito il loro valore…
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