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Nella loro ormai lunga carriera (siamo giunti al sedicesimo album in studio) i Djam Karet ne hanno fatte davvero di tutti i colori… La loro proposta musicale è sempre stata fortemente personale, vivacissima e policromatica, vista la capacità di far coniugare in un’unica direzione forme stilistiche diverse. Il bagaglio tecnico dei musicisti e la loro fantasia hanno sempre permesso una contaminazione intrigante, mostrando due facce di una stessa medaglia: da una parte il lato più vigoroso del gruppo, caratterizzato da quel flusso sonoro che mescola furia crimsoniana, improvvisazioni da jam-band e spunti di jazz-rock; dall’altra, abbiamo l’aspetto più melodico, venuto spesso fuori attraverso composizioni d’atmosfera che possono inserirsi nella cosiddetta ambient music. Il nuovo lavoro di questa straordinaria formazione americana è un’altra sorpresa, perché dai Djam Karet tutto ci si poteva aspettare tranne un lavoro basato su coordinate prettamente sinfoniche. Mai le tastiere erano state usate in maniera così (sia per la quantità che per lo stile), al punto da vedere nel loro prog tanti accenni classicheggianti ed una fonte di ispirazione inaspettata come quella rappresentata da Keith Emerson. Si, proprio lui: se andate ad ascoltare brani come “Dr. Money”, “The gypsy and the hegemon” e la title-track vi renderete conto di come i sintetizzatori di Gayle Ellett e Mike Henderson siano in questo caso debitrici dello storico keyboards-wizard. Non mancano spunti floydiani, sempre inseriti in un contesto contraddistinto da fusione di generi (in particolare in “The march to the sea of tranquillity”, che apre il cd, e in “The packing house”). La cosa più bella è che, nonostante questa matrice fortemente sinfonica, il sound sembra invariato e immediatamente riconoscibile, nel senso che bastano poche note per far capire che siamo di fronte ai Djam Karet e non ad una novella ed inesperta band che si sta appena affacciando in certi scenari. Il connubio globale di suoni, infatti, fa emergere, ancora una volta, quella personalità fortissima che contraddistingue gli artisti che vanno sempre ben al di sopra delle medie qualitative. Tutto ciò dimostra che siamo davvero al cospetto di un gruppo superiore. Ma il cd è suddiviso idealmente in due parti: la prima (circa quaranta minuti), quella che dà il titolo all’opera, la abbiamo appena descritto; la seconda, dal titolo “Indian Summer”, vede la band impegnarsi su scenari ambient oppure in direzione più acustica per circa mezz’ora. Anche in questo caso i risultati sono positivi, anche se si finisce col preferire di gran lunga “Recollection harvest”. Poco altro da aggiungere, se non che questo cd vede i Djam Karet proporsi su livelli decisamente elevati nella loro ennesima evoluzione.
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