|
Ad oggi sono diciannove gli album della band statunitense dal nome indonesiano Djam Karet (si legge “jam care-ray”, cioè “tempo elastico”), nata nel 1984 come jam band e poi diventata qualcosa di ben strutturato. Una discografia importante che negli anni ha presentato contenuti musicali abbastanza vasti. Già con due ottimi chitarristi in formazione – il polistrumentista Gayle Ellett e Mike Henderson –, nel 2009 il gruppo di Topanga ha preso parte al Crescendo Festival; quella fu l’occasione per assoldare addirittura un terzo chitarrista, Mike Murray, in modo tale da lasciare maggior libertà ad Ellett sulle tastiere e allo stesso tempo non perderci dal punto di vista dell’impatto sonoro. Murray è presente anche su questo terzo lavoro, suonando la chitarra acustica ed il mandolino elettrico su alcune tracce. Per il resto, la band è la medesima degli esordi: Mike Henderson (chitarre elettriche, slide e acustiche a dodici corde, sintetizzatori), Henry Osborne (basso), Chuck Oken Jr. (batteria, sequencer) e naturalmente Gayle Ellett, il quale non solo suona chitarre e tastiere di ogni tipo, ma si concede anche a tutta una serie di strumenti esotici di cui molti non avranno mai nemmeno sentito nominare (roba tipo udu, tar, mbira, surmandal). Oltre ad altri strumenti che vanno dalla viola al vibrafono, dal tamburello… al campanello della bicicletta! In tutto questo, “A sky…” si presenta fin dalle premesse come un viaggio astrale ben rodato, che dalle prime note di “Beyond The Frontier” pareva tornare ai tempi in cui la band si lasciava andare a delle grandi fughe chitarristiche. Purtroppo per gli affezionati di quel periodo, i fasti di “Live at Orion” (1999) sono lontani. Ellett e soci appaiono ancora vicini a lavori tipo “The trip” (2013) o il penultimo “Sonic celluloid” (2017). Nel pezzo di apertura in questione vi sono momenti di stasi che sfiorano davvero l’immobilismo, alternati ad altri suggestivi ma purtroppo brevi dove compare il sitar di Todd Montgomery, uno dei tanti ospiti. È un’avventura notturna in cui a volte si ha la sensazione di smarrirsi, di non sapere davvero che strada prendere. Buona la fase in cui la via viene tracciata da Osborne col suo basso solista. Visto che ormai si è scavalcata la frontiera, la strada fa puntare per il sentiero tanto celestiale quanto tortuoso di “Long Ride To Eden”, dove vari strumenti acustici a corda – sitar di Montgomery compreso – si muovono raggiungendo una nuova fase di quiete, prolungata fino alla fine. La parte più lisergica e cosmica del gruppo viene fuori sulla seguente “West Cost”; il viaggio porta sempre con pacatezza sui luoghi storici della psichedelia, con il mandolino elettrico e le chitarre acustiche di Mike Murray, assieme al charango di Micah Nelson. Quello di raggiungere quasi un apice per poi confluire in una rarefazione prolungata sembra ormai il leitmotiv dominante; come si diceva, musica rarefatta, quasi ambient, che va a connotare i primi tre minuti della title-track, a cui poi susseguono nei restanti otto minuti chitarre acustiche e altre interruzioni con suoni provenienti dallo spazio, includendo un lievissimo intervento della chitarra elettrica. Situazione analoga lungo i tre minuti di “Dust In The Sun”. Rimangono altri tre pezzi, tutti piacevoli ma dalle coordinate più o meno simili a quanto descritto fino ad ora, tra crepuscoli e notti che calano a portare la quiete. Tutto piacevole, appunto. Non c’è praticamente altro, a parte un’ottima produzione che fa vivere in questo spazio astratto e in cui ogni tanto si plana anche vicino la Terra. A suo tempo, si usava mortificare la musica degli Ozric Tentacles per esaltare proprio i Djam Karet. Band che in realtà non hanno poi molto in comune, tranne il fatto che entrambe si lasciavano andare a grandi fughe chitarristiche. Altri tempi, che purtroppo sembrano non poter tornare più, nemmeno sotto altre forme. Quest’ultimo “A sky…”, comunque, risulta un ottimo strumento per rilassarsi, anche con un certo tasso di elaborazione.
|